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Religioni e media, una coppia impossibile

Dieu n’existe pas dans mon journal: Dio, nel mio giornale, non c’è. Giornalisti e operatori dell’informazione si sono ritrovati a Losanna, la sera del 26 marzo scorso, a dibattere in un luogo oggi «laico» (un ex locale di culto, aperto alla cittadinanza e alle associazioni culturali), per discutere un tema d’attualità su invito dell’agenzia stampa ProtestInfo, le cui notizie spesso i lettori di Riforma trovano nelle nostre pagine. ProtestInfo, infatti, festeggiava i primi 15 anni di attività, da quando subentrò alla precedente agenzia Spp, creata nel 1928.

Il direttore, pastore Michel Kocher, ha condotto una tavola rotonda a cui hanno partecipato giornalisti di quotidiani e altri periodici della Svizzera romanda, ma anche il sociologo delle religioni Philippe Gonzalez (sui cui lavori v. Riforma n. 14, p. 5) e Béatrice Métraux, consigliera di Stato (Dipartimento Istituzioni e Sicurezza del Cantone di Vaud).

Argomento della tavola rotonda era dunque la presenza, o meglio l’assenza, delle questioni religiose dai mezzi d’informazione «normali», o generalisti. Secondo Gonzalez, il maggior successo nelle trasmissioni tv con rappresentanti delle religioni si ha non tanto quando si parla di religione, o dei contenuti della fede, ma quando si affronta una delle tante angosce che caratterizzano la società nel suo complesso (di nuovo, l’etica, il fine-vita o il sesso, Charlie Hebdo, i preti pedofili, un’ipotesi di legge in Svizzera contro i minareti). Ci si attende una qualche parola dalle comunità di fede: a volte arriva, possiamo dire noi, a volte no. Il peggior caso è quando la comunità di fede ripete quello che la società vuole sentirsi dire: ma questo è un problema che non riguarda i soli operatori dell’informazione, ma investe le chiese, le comunità, le Facoltà di teologia, la predicazione stessa; e nessuno può tirarsi indietro.

Per i protestanti c’è poi un problema in più: se i «valori» della cultura protestante sono in buona parte quelli della modernità, c’è il rischio che altri soggetti se ne facciano portavoce, come e anche meglio delle chiese stesse, e le chiese ne risultano espropriate. Ma è forse tipico del protestantesimo costruire gli strumenti critici per analizzare anche se stesso, con i rischi di consunzione delle proprie comunità e di omologazione a visioni del mondo «vicine». Là dove, poi, il protestantesimo è religione maggioritaria, è importante quello che ha fatto notare la Consigliera di Stato a proposito delle nuove norme che regolano il riconoscimento dei soggetti religiosi: non un riconoscimento, in astratto, delle religioni, ma un riconoscimento dei diritti degli aderenti alle religioni stesse, cioè i diritti delle persone in carne e ossa.

Alla tavola rotonda erano presenti anche gli operatori dell’informazione convocati quel giorno e il seguente dalla Cepple – Conferenza delle chiese protestanti dei Paesi latini d’Europa – intorno al tema «Religioni e media», una coppia impossibile (oltre a chi scrive e agli operatori delle chiese svizzero-romane, anche i rappresentanti dell’Église protestante unie de France e dell’Église protestante unie de Belgique).

Lo snodo principale attorno al quale si è sviluppata la discussione è stato quello dei rapporti fra comunicazione all’interno delle chiese, tra una chiesa e l’altra, tra le chiese dei diversi Paesi e tra le chiese e le rispettive società: ognuno di questi fronti richiede, come è ovvio, un insieme di risposte il più possibile coordinate. Non ultimo, si affaccia il problema della o delle professionalità: le chiese devono avere nei loro organigrammi dei portaparola o dei professionisti dell’informazione?

Tre saranno le direttrici lungo le quali proseguire il programma appena avviato a Losanna: le strategie comunicative per le chiese dei Paesi latini; la comunicazione via web; i linguaggi per parlare alla società: appuntamento fra un anno e mezzo/due anni.

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