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Ghetti, non campi nomadi

La Commissione diritti umani del Senato ha approvato una risoluzione che impegna il Governo a trovare nuove soluzioni alla questione dei cosiddetti “campi nomadi” parallelamente a una strategia nazionale per l’inclusione delle etnie Rom, Sinti e Camminanti. Poche settimane fa l’ultimo rapporto della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza aveva nuovamente rimproverato l’Italia di non garantire il rispetto di queste comunità. A questo si è aggiunta l’inchiesta su Mafia Capitale, che ha evidenziato come la confusione politica permetta l’inserirsi delle modalità malavitose anche nella gestione dell’accoglienza o dell’integrazione, e in particolare a Roma, nella gestione dell’integrazione dei Rom. Commentiamo le notizie con Alessia Passarelli, dottoressa in Sociologia, che si è occupata a lungo dei gruppi Rom rumeni a Roma.

Come commenta queste notizie?

«Mi viene in mente che ancora oggi venga detto a sproposito che i Rom sono nomadi, e quindi si parla di campi nomadi anche se la maggior parte dei Rom italiani, o provenienti dall’est, dalla Romania per esempio, sono stanziali. Già nella percezione dell’opinione pubblica, dire campi nomadi dà delle indicazioni sbagliate. Questi campi non hanno nulla di temporaneo, sono stati costruiti e pensati negli anni ’70, quando alcuni dei Rom che si muovevano per motivi di lavoro avevano bisogno di aree attrezzate con servizi: da aree temporanee sono diventate aree permanenti.. Bisognerebbe superare questo concetto, sicuramente perché la Commissione europea da anni ci invita a farlo, ma soprattutto perché sono dei ghetti, che creano un controllo sulle persone che ci vivono e anche un target group: diventi Rom perché vivi in quel campo, non per la tua appartenenza etnica. Si creano delle condizioni deviate e devianti all’interno di questi ghetti, la criminalità e situazioni negative che succederebbero a chiunque in condizioni simili».

Quali sono le buone pratiche per uscire da questa situazione?

«Sicuramente quella di trattare i Rom come tutti gli altri cittadini, aiutarli a inserirsi nel tessuto sociale, dar loro la possibilità di accedere a delle case. Molti dei Rom che sono venuti qui dalla Romania prima vivevano in case di mattoni, non in container. Bisogna però fare attenzione a non creare un altro ghetto abitativo. Come in tutte le situazioni di pianificazione, tutti gli attori coinvolti dovrebbero essere seduti al tavolo delle trattative: per pensare a un piano abitativo per i Rom, è imprescindibile farlo con i diretti interessati. Quello che è successo con mafia Capitale è stato solo la punta dell’iceberg».

La soluzione della Commissione del Senato è un buon inizio?

«Il riconoscimento è sicuramente uno dei primi passi, anche se da solo non basta. Senza diritti e riconoscimento dell’importanza della lingua e della cultura di un popolo che vive in Italia da secoli, non si fa molta strada, ma è indispensabile anche per cambiare la cultura italiana, che vede la maggior parte dei rom come degli stranieri, senza rendersi conto di come hanno vissuto e contribuito in Italia ben prima della costruzione dell’Italia stessa. I Rom sono la prima minoranza etnica europea, sarebbero gli europei per eccellenza da un certo punto di vista».

I Rom vengono raccontati sempre quando si tratta di emergenza: abitativa, sociale…

«Non credo che ci sia un’emergenza, credo che dirlo serva per gestire in maniera frettolosa, poco mirata e poco lungimirante, una situazione che sicuramente ha delle difficoltà e si è incancrenita, ma da qui a parlare di emergenza Rom c’è differenza. Se vediamo i numeri dei Rom stranieri che sono in Italia, rispetto a quelli europei, abbiamo una percezione falsata. L’associazione 21 Luglio sta lavorando per questo, con il suo lavoro di promozione, di advocacy, per far capire che l’emergenza Rom viene cavalcata a livello politico per fini elettorali. Ragionare in maniera diversa attuando le direttive che l’Europa ci chiede, ci permetterà di capire se la strada è giusta o no».

Foto via Pixabay | Licenza: CC0 Public Domain