verjamelilla

Le morti alle frontiere dell’Ue si possono fermare

«Morti alle frontiere dell’Unione europea – Ci sono delle alternative!» è il titolo della Conferenza internazionale che si è svolta a Roma dal 23 al 24 febbraio, a cura della Commissione delle chiese per i migranti in Europa (Ccme) e della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). Abbiamo rivolto alcune domande a Doris Peschke, segretaria generale della Ccme.

Parlando alla recente conferenza Ccme-Fcei lei ha detto che è possibile fermare le morti alle frontiere dell’Europa. Ma a quali condizioni questo può accadere?

A condizione che l’Ue e gli stati membro si accordino ad accogliere i rifugiati, soprattutto quelli provenienti dalla Siria e dall’Eritrea che rappresentano i gruppi più numerosi che attraversano il mar Mediterraneo, e prevedano l’apertura di campi direttamente raggiungibili attraverso la Turchia, la Giordania e il Libano in modo da giungere in Europa evitando il passaggio in paesi come la Libia. Secondo la Ccme il 10% dei siriani (circa 380.000 persone) potrebbe essere reinsediato in diversi paesi europei nei prossimi due anni. Se gli stati membro dell’Ue facessero degli sforzi per sostenere questi numeri, si creerebbe un’alternativa reale ai viaggi rischiosi che i migranti accettano di fare pur di fuggire da guerra, povertà e persecuzioni. Un’altra opzione sarebbe di rilasciare un visto umanitario ai siriani, in questo modo essi non sarebbero costretti a pagare dai 2000 ai 5000 dollari ai trafficanti ma potrebbero viaggiare su mezzi di trasporto sicuri con cui raggiungere l’Europa.

Nel corso della conferenza di Roma è stato lanciato il progetto «Safe Passage» (Passaggio sicuro). Quali sono le sue finalità?

Il progetto, condiviso dalle chiese di diversi paesi del Nord e del Sud d’Europa, vuole prima di tutto elaborare degli strumenti alternativi attraverso i quali far giungere in sicurezza quanti cercano rifugio e protezione nel nostro continente. Inoltre il progetto mira a monitorare la situazione del Mediterraneo, con particolare attenzione alla Spagna, all’Italia e alla Grecia – i tre paesi maggiormente coinvolti dall’arrivo via mare di rifugiati e migranti -, e a sostenere le chiese che si stanno attivando in progetti di grande interesse: Mediterranean Hope in Italia, il Centro ecumenico Malaga in Spagna, e il Programma ecumenico per i rifugiati delle chiese in Grecia. Un aspetto importante del progetto sarà inoltre quello di sensibilizzare i paesi europei a condividere le responsabilità degli arrivi e l’accoglienza dei rifugiati, facendo pressione politica sugli altri governi affinché si attivino in operazioni di reinsediamento dei rifugiati. Nella conferenza di Roma, in particolare, si è parlato dell’impegno delle chiese ad adoperarsi affinché il diritto al ricongiungimento familiare sia visto in una prospettiva più ampia, dove per famiglia non si intende solo il nucleo familiare più ristretto.

Può darci una breve valutazione della Conferenza?

La conferenza è stata l’occasione per un proficuo scambio di riflessioni e proposte. Abbiamo espresso apprezzamento per l’operazione Mare Nostrum che ha consentito di evitare la morte di centinaia di migranti. Ora che l’operazione si è conclusa, auspichiamo che gli stati europei sappiano mettere in campo un’operazione simile che garantisca la ricerca e il soccorso dei migranti nel Mediterraneo. Qualsiasi soluzione si adotterà, è necessario che gli stati siano pronti ad accogliere più rifugiati. Dove i paesi europei parlano di “oneri”, noi preferiamo parlare di condivisione delle responsabilità. Le chiese faranno la loro parte nella società, lavorando per l’accoglienza dei rifugiati. Questo già avviene in alcuni paesi europei come la Germania, la Svezia, ma non basta.

Nel corso della Conferenza si è parlato di future operazioni di «ricerca e soccorso» nel Mediterraneo. Cosa intende?

Nel 2014 l’operazione Mare Nostrum è finita, ma noi vogliamo incoraggiare l’Italia e gli altri paesi europei a far ripartire una simile operazione. Già nei mesi di gennaio e febbraio sono riprese le morti di centinaia di migranti, perché non c’era nessuno che sorvegliava il mare e soccorreva le imbarcazioni in difficoltà. L’operazione Mare Nostrum è nata dopo la tragedia di Lampedusa avvenuta nel 2013 che ha rappresentato uno spartiacque. Dal punto di vista legale molti hanno potuto dire “non è nostra responsabilità”, ma moralmente noi non possiamo accettare che le persone muoiano: dobbiamo fare qualcosa, e l’Italia ha dimostrato che qualcosa in più si può fare. Purtroppo la povertà e soprattutto le guerre spingeranno altre persone a mettersi in viaggio, ed è importante che ad esse sia data un’alternativa ai pericolosi viaggi sui barconi.

Quali saranno i prossimi passi del progetto?

Stiamo organizzando un incontro in Spagna in modo da analizzare con più attenzione la situazione spagnola dove esiste una nuova legislazione che prevede di rimandare indietro i rifugiati che dal Marocco arrivano a Ceuta – Melilla. La situazione è molto grave perché le persone che cercano di superare le recinzioni riportano delle profonde ferite. La discussione, dunque, si concentrerà non solo sulla questione legislativa ma anche sugli aspetti relativi al rispetto dei diritti umani.

Nei primi mesi del 2015 ci sono stati numerosi arrivi di profughi e migranti che hanno coinvolto soprattutto l’Italia e la Grecia: gli stati europei non possono affermare che è un problema altrui, ma devono accettare che si tratta di una questione europea che esige una soluzione comune. Infine, vorremmo preparare delle agili pubblicazioni contenenti informazioni, storie e analisi da far circolare nelle chiese di quei paesi che non sono direttamente interessati dal fenomeno migratorio via mare, come Finlandia, Svezia, Germania, Gran Bretagna, in modo da creare consapevolezza sulla tematica e da promuovere successive azioni.

Foto “Verjamelilla” by OngayoOwn work. Licensed under GFDL via Wikimedia Commons.