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Meno fratelli d’Italia. Il calo demografico fotografato dall’Istat

Gli ultimi indicatori demografici dell’Istat ci dicono che sono 509 mila i nuovi nati in Italia nel 2014, cinquemila in meno rispetto al 2013. Il numero medio di figli per donna è pari a 1,39, stabile rispetto al 2013, ma lontano dalla media europea del 1,58. Le donne straniere continuano ad avere più figli rispetto alle italiane, 1,97 figli per donna, ma anche per loro la media è in calo rispetto agli anni precedenti. Crisi economica, controllo delle nascite, insicurezza nel futuro e reti sociali che si disgregano: i perché di questi numeri sono interpretati con queste e altre chiavi di lettura, che però non sembrano essere esaustive se lette in modo isolato. Ne parliamo con Paolo Ribet, pastore valdese e coordinatore della commissione sui nuovi modelli di famiglia della Tavola Valdese.

Cosa pensa di questi dati?

«Credo che il dato veramente eclatante è che nelle famiglie straniere, dei nuovi italiani, si comincia ad avere un calo demografico. Può darsi che sia anche una questione di occidentalizzazione: anche queste famiglie entrano nella mentalità, nel modo di pensare e di vivere tipico di un paese occidentale. Faccio, però, ancora un’altra osservazione: nel 1861(data di confronto nei dati Istat, ndr) c’erano poche nascite perché gli italiani erano meno, oggi siamo 60 milioni, cosa che rende il dato ancora più sconcertante. La mia lettura è che la crisi morde, e morde duramente. Mettere al mondo dei figli diventa un problema, non ci sono i nidi e gli asili, non sai se domani avrai uno stipendio. Qui a Torino sta succedendo sempre più spesso: persone della mia chiesa che vengono da me e testimoniano di come, una volta perso il lavoro sia sempre più difficile pensare al futuro. Quando io ero giovane qualcuno poteva non mettere al mondo figli per motivi ideologici, la società ingiusta e così via; oggi ho l’impressione che l’unica ideologia che compare sulla scena è la paura. Paura del futuro». 

La speranza di vita aumenta: si sposta l’asticella della speranza e si rimanda l’impegno dei figli?

«Un dato possibile, anche se le cose viaggiano parallele e non necessariamente si incontrano. La speranza di vita allungata si tramuta nelle giovani coppie in un’adolescenza infinita, che porta a sentirsi pronti per un figlio dopo i quarant’anni. Prima il tempo serve ad altro, ma le nascite in là nel tempo sono sempre più problematiche. Questo la commissione sulle famiglie lo sta dicendo da tempo: la realtà cambia. Il modo di percepirsi cambia, e con questo mutano la famiglia e la genitorialità, il modo di essere genitori, l’età per esserlo, e il numero di figli che si possono avere. I cambiamenti di questi anni sono profondi e radicali, per questo si dice che la ricostruzione dei rapporti umani deve essere messa in primo piano, anche se spesso discutiamo della forma della famiglia. Anche perché dall’altra abbiamo una grande possibilità di metodi anticoncezionali che ci permettono di programmare il futuro: ma il futuro non si programma, si costruisce giorno dopo giorno, se possibile non da soli». 

Dire che non si fanno più figli perché ci sono metodi anticoncezionali o di interruzione di gravidanza non è un po’ superficiale?

«È un po’ tagliato con l’accetta: in passato si conoscevano meno questi metodi, ma c’era un altro atteggiamento nei confronti della vita. Forse si viveva la vita senza pensarci troppo, anche in caso di tragedie immani, come la Seconda Guerra mondiale, in cui la tragicità e il timore per il futuro erano ben più presenti. Le conoscenze rispetto alla sessualità erano diverse, certamente, ma era anche diverso l’approccio alla vita. Anche io dico che l’aborto non è un anticoncezionale come un altro, ma la domanda continua a restare: perché nascono meno bambini? Gli immigrati si adeguano a questa cultura, perché? Uno dei problemi è come si affronta l’esistenza: ora è tutto è molto centrato sul singolo, su sé stessi. Occorre imparare a giocare il futuro insieme, e ricostruire i tessuti di relazione».

Copertina: Pixbay. CC0 Public Domain