La salute non è uguale per tutti

A gennaio, l’organizzazione israeliana Physicians for Human Rights Israel, controparte mediorientale dell’Ong italiana Medici per i diritti umani, ha presentato il rapporto Inequality in Health, in cui per la prima volta vengono analizzati in modo sistematico i vari indicatori che definiscono il livello di accesso alle cure e in generale la situazione sanitaria nei territori dello stato di Israele e nei Territori occupati palestinesi.

Dal rapporto emerge un generale senso di disuguaglianza che si esprime, in termini strettamente numerici, in tre dati chiave: la mortalità infantile tra i palestinesi è pari a 18,8 per 1.000 nati nei Territori occupati, contro il 3,7 in Israele; il tasso di mortalità materna tra le donne palestinesi è di 28 per 100.000 nascite, mentre in Israele e nelle colonie è di 7; infine, l’aspettativa media di vita dei palestinesi residenti nei Territori occupati è di circa 10 anni inferiore rispetto a quella in Israele.

Secondo Alberto Barbieri, di Medici per i diritti umani, «questa discriminazione nell’accesso alle cure e queste diseguaglianze di salute sono in gran parte collegate al controllo esercitato da Israele nei territori occupati».

Dopo gli accordi di Oslo del 1994, infatti, l’Autorità nazionale palestinese aveva assunto il controllo del sistema sanitario nei Territori occupati, accettando però di far parte di un modello che, a vent’anni di distanza, soffre ancora di una strutturale dipendenza dalle intenzioni e decisioni del governo israeliano. Tel Aviv ha infatti la prerogativa di acquisire le entrate economiche relative alle tasse doganali e all’Iva di tutte le merci che entrano nei Territori, con il dovere di consegnare poi i proventi all’Anp. Stiamo parlando di ingressi economici pari, secondo i dati di vari istituti e organizzazioni, a una quota compresa tra il 40% e il 60% dell’intera disponibilità economica dell’autorità palestinese, e che quindi hanno rappresentato, e ancora oggi rappresentano, un potente strumento di pressione politica a disposizione di Israele, utilizzato più volte nella storia recente come forma di risposta ad atti politici percepiti come ostili, come ad esempio l’adesione dell’Anp alla Corte penale internazionale nel dicembre del 2014.

Apparentemente le due questioni sembrano scollegate, ma se si pensa al peso dell’investimento sanitario sui bilanci pubblici ci si rende conto di come, senza la possibilità di pianificare la propria capacità di spesa, tutto il sistema diventi scadente, miope e traballante.

Limitare la questione al tema dei finanziamenti senza tenere conto delle condizioni di accesso alle acque e alla terra sarebbe sbagliato. Tornando agli accordi di Oslo del 1994, bisogna ricordare che i Territori occupati furono divisi in tre aree, e che di quelle soltanto una, la zona A, è sotto il pieno controllo dell’Anp, mentre parte della zona B e l’intera zona C sono colonizzate da Israele. Questo ha portato alla costituzione di varie enclavi palestinesi in un territorio parcellizzato. «Tutta la possibilità di movimento della popolazione palestinese, e parliamo in particolare dei pazienti, ma anche dei medici, del personale sanitario e dei mezzi di soccorso, trova grandissime limitazioni nel fatto che le aree sotto controllo sono zone limitate. Per accedere ad altre aree, ad altre strutture sanitarie come gli ospedali, bisogna attraversare aree sotto il controllo militare israeliano. Questa parcellizzazione ha avuto impatti molto pesanti sulla vita della popolazione palestinese e ovviamente sulla possibilità di accesso alle cure e sulle condizioni di salute in generale».

Senza spendere parole pesanti come quelle pronunciate nel 2008 dall’allora relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori occupati palestinesi, John Dugard, che parlò di apartheid sul modello sudafricano, risulta comunque evidente una disparità strutturale tra i sistemi sanitari guidata e orientata dalla volontà politica delle parti.

Proprio per via delle debolezze del servizio pubblico palestinese, negli ultimi 10 anni in Cisgiordania si è sviluppato un ampio sistema sanitario privato legato alle organizzazioni nazionali e indipendenti. Medici per i diritti umani, ad esempio, collabora dal 2009 con Phr Israel e con la Palestinian Medical Relief Society per lo sviluppo di progetti sanitari e per l’allestimento di cliniche di medicina generale e specialistica nei territori occupati palestinesi, nei villaggi della Cisgiordania che sono più isolati e hanno più difficoltà di accesso alle strutture sanitarie, insieme a cliniche mobili per la salute della donna, finanziate in parte anche dall’Otto per mille valdese. «Il progetto – spiega Barbieri – prevede anche una parte di training, di formazione, per i giovani medici palestinesi, che scontano gli stessi problemi dei pazienti, cioè la difficoltà, a volte l’impossibilità, di uscire dai territori occupati palestinesi, e quindi di aggiornamenti e approfondimenti, che per il personale medico sono indispensabili».

Come spesso succede, le risposte arrivano dal basso, provando ancora una volta a rendere gli ultimi, quando possibile, un po’ meno ultimi.

 

Copertina: Licenza CC0 Public Domain, via pixabay.com