Il cancello di Auschwitz

Primo Levi, la limpidezza del testimone

Il vagone è lì sulla grande piazza, davanti alla severa facciata dello storico Palazzo Madama, a Torino: ha l’apparenza quasi innocente di un enorme vagoncino dei giochi dei bambini, roseo e fermo lì, che puoi girarci intorno da ogni parte. Ma poi vedi dei fiori primaverili, sotto le ruote, che mani commosse hanno posato, e lumini rossi da preghiera. Guardi un po’ meglio, e vieni a sapere che proprio così era fatto quello che portò Primo Levi ad Auschwitz, in un convoglio di 12 vagoni merci, su cui c’era il cartello indifferente: «cavalli 8, uomini 40». Erano ben di più, invece, assiepati lì dentro – uomini, donne, vecchi e bambini – e in quel «viaggio verso il nulla» di 650 persone ne poterono fare ritorno solo 24.

La mostra nell’interno del Palazzo «I mondi di Primo Levi – una strenua chiarezza», dedicata al settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz – il 27 gennaio 1945 da parte dell’Armata Rossa – è come era lo scrittore: testimonianza della tragedia ma al tempo stesso levità dell’intelligenza e forza della cultura. Si possono persino ascoltare alcune videointerviste, e sentire dal vivo la voce di Levi, incredibilmente giovane fino agli ultimi anni, percorsa ogni tanto dalle vibrazioni dell’humour tipicamente piemontese, quella capacità di distanziarsi dalle proprie stesse emozioni, che permette di affrontare con cocciutaggine le vicende anche drammatiche della quotidianità e della storia.

Dal treno che portava il ventiquattrenne Primo – partigiano in Val d’Aosta ed ebreo – e gli amici catturati con lui, Luciana Nissim Momigliano e Vanda Maestro (la prima, medico, diventerà un’importante psicoanalista, allieva di Cesare Musatti, mentre quest’ultima, più fragile, non sopravvivrà) – egli riuscì a buttare una cartolina, che qualcuno pietosamente raccolse e inviò: indirizzata all’indimenticabile Bianca Guidetti Serra, terminava con un pensiero di incitamento e di addio: «A voi la fiaccola».

Ma la fiaccola della battaglia per la verità e la giustizia Primo Levi la porterà invece fino all’ultimo. «Il mio nome è 174517», così divenne: un numero tatuato sul braccio, e poté salvarsi, come Luciana, perché lui chimico e lei medico. Anche Leonardo De Benedetti, di una ventina d’anni più anziano, amico e compagno di Primo nella detenzione e nel «cammino verso casa» – «l’uomo buono» di cui lo scrittore farà il ritratto alla morte, nel 1983 – si salverà in quanto medico, e tornato si prodigherà con lui per testimoniare dei «sommersi».

«Sogni densi e violenti – scrive Levi della prigionia – sognati con anima e corpo: tornare, mangiare, raccontare». Il dovere di raccontare: «Non è lecito tacere. Se noi taceremo, chi parlerà?», scrive nel 1955. E dieci anni più tardi, in un editoriale sulla prima pagina de La Stampa, narra dell’avverarsi di un sogno frequente nella prigionia: «L’interlocutore non ci ascolta, non ci comprende, si distrae, se ne va e ci lascia soli. Eppure, raccontare dobbiamo». Questo ruolo di testimone e di scrittore lo scienziato Primo Levi l’ha pienamente svolto, dopo essersi portato sulle spalle l’immane tragedia, in cui avevano sperimentato «alcune cose sull’uomo che sentiamo necessario divulgare»: in quella morte di Auschwitz, che era «triviale, burocratica e quotidiana» – scrive – «Ci siamo accorti che l’uomo è sopraffattore: è rimasto tale, a dispetto di millenni di codici e di tribunali».

Quel lontano editoriale dà il titolo oggi alla raccolta delle testimonianze – relazioni, articoli, deposizioni a processi – che Primo Levi e Leonardo De Benedetti fecero instancabilmente a partire dal 1945.*

Il libro è stato presentato ora a Palazzo Madama: oltre ai curatori, con una relazione dello storico dell’ebraismo Alberto Cavaglion. «Primo Levi parlava per tutti noi» – disse in un’intervista Luciana Nissim, che aveva rivendicato per ricominciare a vivere la «medicina dell’oblio», ma che, dopo la morte di lui, accettò di riprenderne la fiaccola. E anche noi oggi, venuti dopo l’immane tragedia, dobbiamo continuare a non tacere.**

 

* Primo Levi – Leonardo De Benedetti, Così fu Auschwitz – Testimonianze 1945-1986, a c. di Fabio Levi e Domenico Scarpa, Torino, Einaudi, 2015. Cfr. anche Anna Segre, Un coraggio silenzioso. Leonardo De Benedetti, medico, sopravvissuto ad Auschwitz, Torino, Zamorani, 2008.

** Luciana Nissim Momigliano, L’ascolto rispettoso. Scritti psicoanalitici, a cura di Andreina Robutti, Milano, Raffaello Cortina, 2001.

Foto: “Cancello del lager: Arbeit macht frei (“il lavoro rende liberi”) di Muu-karhu (Own work) , Con licenza CC-BY-SA-3.0 or CC BY 2.5, via Wikimedia Commons