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Colmare il deficit di compassione online

C’era una volta una giovane ebrea californiana di belle speranze che, fresca di laurea, approda alla Casa Bianca come stagista. Possiamo immaginare i sogni di quella giovane donna: una carriera politica o l’amore della sua vita o — perché no? — entrambi. Molto più banalmente, diventa l’amante di Bill Clinton, l’uomo più potente del suo paese. Il procuratore Kenneth Starr, repubblicano, rende pubblica la relazione tra i due: vuole distruggere Clinton, per poi magari aspirare alla Casa Bianca. Gli atti di tutta la vicenda, recentemente resi pubblici dimostrano l’accanimento di Starr nei confronti della giovane.

L’opinione pubblica perdonò Bill per rispetto della magnanima moglie Hillary: la presidenza era salva, la popolarità di questa normale famiglia borghese era intatta. In quest’ottica, però, Monica non poteva più essere la giovane psicologa promettente, ma una rovinafamiglie, una puttana, una che fa schifo e che è pure brutta.

Qual era la novità di questa storia, se vogliamo, molto banale? La novità era internet. Lo scandalo fu rivelato nel 1998 da un giornale online. Non c’era ancora Facebook, ma per la prima volta i media tradizionali rincorsero le notizie trapelate in rete. Monica Lewinsky subì una gogna globale e diventò presto lo zimbello di tutti. Fu legata per antonomasia all’atto sessuale della fellatio, perché Clinton — senza vergogna — si difese dicendo che non aveva avuto rapporti sessuali con lei, ma che aveva soltanto “subìto” sesso orale da lei.

L’identificazione tra la fellatio e la giovane psicologa è diventata ormai parte della cultura popolare. L’umorista americano Jay Leno ha detto nel corso del suo popolarissimo Tonight Show ben 454 battute su Monica Lewinsky. Oltre 4o canzoni (soprattutto rap) parlano di lei in maniera non lusinghiera — da Eminem a Beyoncé — e in Italia gli spettacoli del Bagaglino non esitarono a rendere “divertente” l’aspetto pecoreccio e torbido della storia.

Oggi però parliamo di lei perché la vera Monica è tornata, per la prima volta non nelle parole degli altri, ma con la propria voce, come ospite di un convegno di giovani promosso dalla rivista Forbes.

È coraggiosa, nonostante la voce tremante tradisca l’emozione, a tratti impacciata. Ma è viva. Non è abituata a parlare in pubblico, anzi ha paura del pubblico, perché il pubblico le ha fatto male. «E’ come passeggiare per strada e ricevere un pugno sullo stomaco da uno sconosciuto»: questa è l’esperienza di distruzione totale della sua persona subita quindici anni fa.

È tornata come personaggio pubblico — stavolta volontariamente — perché colpita dal gesto di Tyler Clementi, studente 18enne della Rutgers University, suicida nel 2010 in seguito alla diffusione online di un video in cui baciava un uomo. Erano stati i suoi compagni ad aver acceso una webcam per deriderlo pubblicamente.

Anche Lewinsky ha pensato al suicidio, ma è sopravvissuta. Ora a 41 anni vuole dedicare la sua vita a combattere contro il cosiddetto cyberbullismo, vale a dire le molestie, le violenze e gli abusi che avvengono in rete.

Queste sono le parole con cui conclude il discorso:

«Voglio aiutare altre vittime del gioco della gogna a sopravvivere come ho fatto io. Quando le persone abusate online mi parlano, mi dicono: “Quel che è successo a me è terribile, ma niente di paragonabile a quanto hanno fatto a te”. E io rispondo: “C’è differenza se io affogo in venti metri d’acqua e tu in dieci? Entrambi anneghiamo”. Ma ci sono quelli che dicono: “Monica, perché non chiudi il becco? Perché non sparisci e basta?”. Continueranno a dirlo, lo diranno anche oggi, domani e dopodomani. Loro non chiudono mai il becco. Ma io credo che le storie possano ispirare, educare e cambiare le cose in meglio. La mia storia può aiutare a cambiare la cultura dell’umiliazione in cui viviamo e che vive in noi. Ho taciuto per un decennio, ma ora devo — come dice T.S. Eliot — “disturbare l’universo”. L’apatia del pubblico è parte del problema. E’ necessario un cambiamento radicale su internet e nella società di cui esso è parte. Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale. Online c’è un deficit di compassione, una crisi di empatia».

Agli americani piacciono le storie di redenzione, come dimostra il loro cinema. Ma la storia di Monica Lewinsky è piuttosto una storia di resurrezione. Quella giovane psicologa californiana di belle speranze, che arrivò a Washington carica di aspettative, è morta. Ora c’è una donna forte, che convive con i ricordi più bui della sua vita e con l’immagine che di lei hanno creato i media, che cerca il senso della propria esistenza. Le questioni da lei poste sulla violenza della nostra società, che trova in internet una via di propagazione globale, sono questioni serie. È importante che siano poste da una sopravvissuta e non da un qualsiasi governo, che andrebbe invece sempre visto con sospetto quando si “lamenta” del web.

Un nodo importante del discorso di Lewinsky è l’apatia dell’internauta. Colmare il “deficit di compassione” è cruciale per fare in modo che la rete diventi un spazio sicuro e confortevole per tutte e tutti. Per fare questo è importante l’educazione allo stare su internet, come si insegna il galateo o l’educazione stradale. E se qualcuno molesta un’altra persona in rete è importante non cliccare su un’altra pagina, ma intervenire per far capire al molestatore che le sue gesta non sono gradite e al molestato che non è solo. Come nella vita “reale”.

Ha ragione Monica Lewinsky: «Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale».

Bentornata tra i vivi, Monica.

Foto via Flickr