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Autunno caldo, la Fiat, il protagonismo operaio

E’ in distribuzione in questi giorni nel pinerolese il numero di dicembre del free press L’eco delle valli valdesi. Lo speciale di questo mese è dedicato ai cinquant’anni dall’autunno caldo, la stagione delle grandi battaglie operaie e dei successi conquistati in termini di orari di lavoro, rappresentanza, retribuzioni, fino allo Statuto dei lavoratori, con in mezzo la bomba di piazza Fontana.  Quella che segue è un’intervista con il nosto storico Giovanni De Luna, sul ruolo di Torino e della Fiat nell’espolodere delle rivolte sociali.

Buona lettura.

Autunno caldo, una definizione destinata a entrare nel linguaggio comune. In quella fine di 1969 venivano a scadere importanti contratti collettivi di grandi categorie di lavoratori: i chimici, gli edili e soprattutto i metalmeccanici, che allora voleva dire Fiat. Con Giovanni De Luna, docente di Storia contemporanea all’Università di Torino, saggista e osservatore dalla prima linea di quella stagione che ha segnato un intero periodo di lotte e conquiste, tentiamo di ricostruire la genesi di quei giorni: «C’era questa convergenza forte, oggettiva, data dai contratti in scadenza per oltre cinque milioni di persone. Fu Francesco De Martino, allora segretario del Psi, a coniare quell’espressione, autunno caldo, un ossimoro, per significare proprio che si stava aprendo un periodo di importanti vertenze e aspre battaglie sociali». Esplodevano le contraddizioni, anche drammatiche, che la forte crescita economica degli anni precedenti aveva innescato: «La classe operaia era aumentata in maniera esponenziale negli anni ‘60, il periodo del boom. Mirafiori da sola contava oltre 60.000 dipendenti, oggi sono circa 5000. La grande fabbrica di stampo fordista, con la catena di montaggio, era il simbolo del lavoro e al contempo il luogo in cui tutte le criticità del modello di sviluppo si manifestavano. Torino viveva in funzione della grande fabbrica: i tram orientati verso Mirafiori, gli orari, l’esistenza collettiva di una città dipendeva dai ritmi della fabbrica».

Fu una stagione caratterizzata da scioperi e agitazioni continue, con decine di migliaia di persone nelle strade ogni settimana a rivendicare condizioni di lavoro più dignitose. Per la prima volta avendo a fianco gli studenti, gli impiegati e larghi settori della borghesia e degli intellettuali. Ma il grande protagonista fu e rimase l’operaio; non più solo quello proveniente dalla cintura o dalle valli del Torinese, ma anche e soprattutto quello che arrivava dal sud. 

Gestire decine di migliaia di nuovi cittadini ogni settimana creò «un groviglio di difficoltà non di poco conto: l’inclusione (ci ricordiamo i cartelli «non si affitta ai meridionali»), i ritmi differenti, e poi mondi che non si conoscevano e non si capivano. C’erano diversità linguistiche, culturali, antropologiche: i piemontesi, molto legati alle tradizioni regionali, parlavano solo in dialetto, poi diversi erano i cibi, le abitudini, pure i giochi delle carte. Non fu semplice ma sostanzialmente il processo di inclusione funzionò, e funzionò attraverso canali che oggi non ci sono quasi più. Fra questi la fabbrica, vera città nella città, con proprie regole e leggi, luogo di inclusione perché in catena tutti erano davvero uguali, l’organizzazione tayloristica del lavoro faceva sì che le mansioni fossero le stesse che si provenisse da Moncalieri o dalla campagna siciliana. I pregiudizi si svuotarono di colpo di fronte alla fatica. Funzionarono bene anche i sindacati, che furono costretti a mutare la propria classe dirigente legata a vecchi schemi travolti dai tempi: nascono i consigli di fabbrica e i delegati proprio per recepire queste spinte dal basso. Ruolo importante lo ebbero anche le sezioni dei partiti, le parrocchie e l’associazionismo cattolico, penso ad esempio a don Allais e alle sue iniziative».

I contratti vennero infine siglati, e l’anno successivo fu la volta dello Statuto, fondamentale complesso di norme che rappresentano l’apice delle conquiste per l’intero mondo del lavoro in Italia. Tutto ciò, nonostante i tentativi reazionari in corso durante tutto il 1969, con le bombe che a più riprese scoppiano da nord a sud, in particolare sui treni, con il culmine drammatico di piazza Fontana: «Fu uno shock. Con il senno di poi oggi appare molto evidente che quella bomba e quelle precedenti furono una strategia per fermare la spirale di lotte e protagonismo collettivo. Fu subito percepito, sebbene non con la precisione di oggi con gli archivi aperti e più fonti disponibili; la bomba era contro le lotte operaie. Lì per lì non successe nulla, si arrivò alla firma dei contratti, allo Statuto, ma sul lungo periodo ebbe effetti drammatici perché inserì il sospetto sull’operato delle Istituzioni. Fu una ferita per la democrazia difficile da rimarginare, che provocò molti danni negli anni successivi».