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Legge Basaglia, 40 anni dopo

«“Il mio amico Goffman diceva che uno psichiatra può recarsi senza alcun disagio, anche senza conoscere la lingua, in qualunque manicomio del mondo perché la scena e le quinte non cambiano mai. Si troverà sempre con il suo schizofrenico, con il suo infermiere, con il suo assistente o con il suo direttore”: così Franco Basaglia ribadiva l’immutabilità e la ripetitività di quei luoghi», ricorda spesso Peppe Dell’Acqua, classe ‘47, psichiatra che ha avuto la fortuna di iniziare a lavorare con Basaglia fin dai primi giorni triestini, partecipando all’esperienza di trasformazione e chiusura dell’ospedale destinato a persone con disturbi psichici. Tuttora vive a Trieste dove è stato direttore del Dipartimento di Salute mentale per 17 anni, fino all’aprile del 2012. Insegna Psichiatria sociale presso la Facoltà di Psicologia dell’Ateneo di Trieste e dirige una collana editoriale chiamata, appunto come la legge «Basaglia»: 180 – Archivio critico della salute mentale, edita da Alpha e Beta Verlag Edizioni.

«Nelle scelte degli ultimi governi – dice Dell’Acqua – il ministero ha deciso di lasciare all’ultimo posto la salute mentale. La Società italiana di epidemiologia psichiatrica continua con serietà a documentare le disparità regionali, le miserie degli investimenti, la mancanza di una reale volontà di governo».

Dall’avvio dei primi cambiamenti nelle grandi istituzioni manicomiali è trascorso più di mezzo secolo, negli anni ‘70 in Italia c’erano 98 ospedali psichiatrici che ospitavano circa 89.000 internati, «il 13 maggio 1978 la legge 180 decretò la chiusura dei “manicomi” e stabilì uguale diritto di cittadinanza alle persone con disturbi mentali. Un tempo ormai storico – rileva Dell’Acqua –, che pretende un attento lavoro di rivisitazione, sistematizzazione, riproposizione critica di temi, materiali e documenti che raccontino di quei cambiamenti e di quanto hanno prodotto e producono nell’attualità delle pratiche e della ricerca intorno alla questione psichiatrica e della salute mentale».

Dopo anni di disattenzione, luoghi comuni e polemiche tanto aspre quanto superficiali, prosegue Dell’Acqua, «sembra si possa riaccendere un interesse reale e autentico. Il quarantennale della legge 180 è utile per dare voce alla questione. Lo scorso settembre nella passata legislatura è stato presentato in Senato un ddl per una più concreta attuazione dei principi e delle indicazioni della legge di riforma. Per tentare di promuovere una necessaria eguaglianza di diritti e omogeneità di cura in tutto il territorio nazionale. Una proposta che ha preso forma proprio a Trieste».

Questo, perché continuano a essere imperdonabili le lentezze del ministero della Salute e di tutti i governi che si sono succeduti, «i quali hanno investito poco o nulla nella ricerca e nella valutazione dei tumultuosi cambiamenti di quegli anni e ancor meno nella diffusione delle esperienze innovative, delle buone pratiche, delle sensate organizzazioni. Basaglia – ricorda Dell’Acqua –, quando entra per la prima volta nel manicomio di Gorizia, di fronte alla violenza e all’orrore che scopre, è costretto a chiedersi angosciato: “che cos’è la psichiatria?”. Da qui nasce la irreparabile rottura del paradigma. Dopo quasi duecento anni e per la prima volta dalla nascita dell’ospedale psichiatrico – “manicomio” –, le culture e le pratiche della psichiatria sono colpite alle radici. È un capovolgimento ormai irreversibile: il malato prende il posto della malattia. È importante ricordare che in quegli anni abbiamo accettato una scommessa straordinaria che oggi in altri luoghi e con altre forme quotidianamente ci impegna: malati di mente, gli internati, i senza diritto, i soggetti deboli diventano cittadini! Credo che oggi si possa dire che in Italia niente è più com’era trent’anni fa».

La legge 180 estese «ai matti» i diritti costituzionali. L’articolo 32 della Costituzione tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, prosegue Dell’Acqua, «dunque non più lo Stato che obbliga alla cura, che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non più il malato di mente “pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”, ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale».

Eppure in Italia ancora si muore per contenzione e molte persone risiedono in case di cura private con le «porte chiuse», ciò che Basaglia aveva abolito. «Dobbiamo ricominciare a scandalizzarci di fronte alle violenze e agli abbandoni che persistono – conclude Dell’Acqua –, a rifiutare il grigiore dei luoghi comuni perché vi sia per tutti la certezza che le violenze, le sottrazioni, gli abusi, gli abbandoni, la violazione dei corpi che continuano, vengano banditi. Dobbiamo immaginare una nuova rivoluzione e portare sempre più al centro della scena le persone, sempre più vederle nella loro totalità di affetti, di passioni, di bisogni, di sentimenti. Persone come tutte le altre, la cui dignità e il cui valore devono costituire un limite invalicabile per l’operato delle organizzazioni, delle tecniche, delle amministrazioni».