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Vedi alla voce «vocazione»

«Mangerai il pane con il sudore del tuo volto» (Genesi 3, 19) non è una punizione. E «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (in Matteo 22, 21) non è la dottrina dei due regni che piega di fatto il credente all’ineluttabile potere temporale riservandosi la chiesa come spazio separato dove dare testimonianza di fede. Entrambe richiamano, invece, alla propria responsabilità. L’azione personale, nella totalità delle sue espressioni, nei diversi ambiti in cui si esercita, pone ognuno di noi innanzitutto di fronte a se stessi, e, dunque, alla nostra risposta alla vita. Ecco, l’albero della vita, ancora lì, in mezzo all’esistenza di ogni umano. Un albero che chiede cura, rispetto, di essere irrigato, nutrito per svilupparsi a pieno, dare il meglio di sé. E tutto ciò non può accadere nell’aridità, nell’impoverimento, nell’alienazione delle esistenze che lo circondano.

Nessuno può coltivare il «proprio» albero perché se la terra attorno è brulla, anch’esso muore. Il lavoro, dunque, a volte difficile, faticoso sulla terra sofferente, altro non è che il modo personale di dire no o sì alla vita. All’opposto dell’individualismo, si parte da sé, venuti nel mondo da estranei, per farlo nostro, farlo migliore perché lo amiamo, è il dono che Dio ci ha fatto. Va tutto questo nel dettaglio sommario della voce «vocazione»? Per i credenti sicuramente: la chiamata del Signore a metter mano, a lavorare là dove siamo nati per fare la nostra parte. Nel privato e nella polis, nelle chiese e fuori dalle chiese.

Le grandi trasformazioni sociali, geopolitiche, non sono i titoli gridati della tivù, ma i segni di un’umanità in cammino alla ricerca della benedizione promessa. Possiamo dedicarci al nostro mestiere, all’affetto per le nostre madri e i nostri figli; possiamo dedicarci al volontariato a favore delle donne violate, dei bambini soli; possiamo impegnarci nella diaconia; possiamo partecipare all’azione politica, ma se «la messe è molta, ma gli operai son pochi» non vale guardare al numero degli operai, ma alla messe, a quel mare di possibilità per arare campi nuovi, fondare o rifondare città, paesi, ridisegnare la mappa del futuro.

Può essere davvero entusiasmante poterGli dire un giorno anche noi: ero lì, ci sono stata, ho combattuto il mio buon combattimento, lì dove Tu ha voluto che io fossi. Nelle cosiddette società in polvere, nel tempo dell’homo technologicus, dell’intelligenza artificiale e della robotica, sempre più la chiesa siamo noi, ciascuno e ciascuna di noi, portatori di domande di senso di cui l’umanità ha disperato bisogno. Non già spazio di isolamento introspettivo, la chiesa può davvero affermarsi come spazio di liberazione da vecchi e nuovi pregiudizi, da inganni e manipolazioni, da idolatrie seduttive che ci schiavizzano. Karl Barth nel trattare sulla «Decisione politica nell’unità della fede», affronta il tema del compito politico della chiesa (era il 1952 e il problema era la rimilitarizzazione della Germania), un compito che non può non passare – ci ricorda – attraverso la propria, personale, presa di posizione. Il richiamo del Deuteronomio (30, 19) «scegli dunque la vita» non è un principio astratto, ma si contestualizza nelle situazione concrete in cui si mette in gioco il senso della vita e della morte. E nessuno e nessuna di noi può trincerarsi usando la chiesa per nascondersi per farne alibi o paravento alle nostre personali indecisioni. La neutralità non è ammessa. Non si può stare affacciati alla finestra del mondo.