palermo02_flickr

Identità e dialogo

 “Diaspora: identità e dialogo”. Nel caso qualcuno se lo fosse dimenticato — si sa, la memoria a volte tradisce — il tema della Giornata europea della cultura ebraica di quest’anno ricorda involontariamente il legame e le affinità tra il mondo protestante italiano e il mondo ebraico. Una minoranza con l’identità di popolo, che fatica a riconoscersi in una maggioranza, che vive, appunto, in diaspora, coltivando un’identità che non può mai essere chiusura; esponenti di una cultura particolare, con un gergo, dei gesti, dei punti fermi che agli altri possono sembrare bizzarrie e fissazioni; non una setta, ma un gruppo di persone integrate con la società che le circonda, anche quando sembra che tale società le accerchi: parliamo degli ebrei, ma potremmo parlare dei valdesi, dei metodisti o dei battisti italiani.

Quest’anno l’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) ha scelto Palermo come città capofila della Giornata della cultura, pur non avendo una sinagoga né una comunità propriamente detta. Il motivo è che l’arcivescovo cattolico Corrado Lorefice ha donato agli ebrei l’ex oratorio di Santa Maria del Sabato, che sorge ove prima del 1492 era la Grande Sinagoga di Palermo, al fine di poter sanare una ferita lunga 500 anni. Dopo la cacciata degli ebrei dai territori dell’Impero di Spagna, finalmente Palermo riavrà una sinagoga. Se, infatti, formalmente il nuovo luogo di culto apparterrà agli ebrei e sarà il centro delle loro attività cultuali e culturali, in realtà la città tutta trarrà beneficio da questa novità.

Luogo carico di significato per le celebrazioni della Giornata della cultura ebraica lo storico Palazzo Steri, oggi sede del Rettorato dell’Università, ma per secoli sede dell’Inquisizione. Presenti, tra gli altri la pro-rettore Laura Auteri, il sindaco Leoluca Orlando e la presidente dell’Ucei Noemi Di Segni. Nel suo saluto, il sindaco ha ricordato che nello stesso luogo si concluderanno le celebrazioni per i 500 anni della Riforma protestante a fine ottobre.

La decadenza della Sicilia quale centro ricco e fiorente politico, economico e culturale del Mediterraneo iniziò proprio con la pulizia etnica e religiosa dei Re Cattolici, mai rinnegata dai loro successori, tantomeno dai Borboni così assurdamente rimpianti da chi vorrebbe “Make Sicily Great Again”, parafrasando un inquietante slogan d’oltreoceano. Nei 77 anni di libertà civili godute  poi dagli ebrei tra il 1861 e il 1938, a differenza di altre comunità di fede, essi non riuscirono a ricostituire una comunità. Con le Leggi Razziali, gli ebrei che vivevano a Palermo, persero tutto e, così come avvenne nel 1492, ci perse tutta la città. Basti citare il caso di Emilio Segrè, direttore di un giovane e fiorente Istituto di fisica dell’Università di Palermo, inventore del tecnezio (primo elemento chimico artificiale), poi premio Nobel: la sua discriminazione ha contribuito alla fortuna dell’Università di Berkeley in California e alla marginalità del polo scientifico di Palermo.

In assenza di una sinagoga, la costituenda comunità ebraica ha svolto alcune delle sue attività nel salone della chiesa valdese in via dello Spezio: alcune celebrazioni di Shabbat, una festa di Purim e alcuni Seder di Pesach (cene pasquali). Secondo alcune testimonianze, non si tratta di una novità: già dopo lo sbarco in Sicilia, il comando militare alleato chiese ai valdesi di ospitare un Seder di Pesach.

In preparazione alla Giornata europea di quest’anno, sotto la guida del rabbino Gadi Piperno, gli ebrei di Palermo hanno organizzato nei nostri locali la cena e il pranzo di Shabbat, con diversi momenti di preghiera e riflessioni, cui era presente anche un gruppo di ebrei da una sinagoga di Londra. Allo Shabbat ho potuto partecipare insieme alla mia famiglia.

Senza dubbio le affinità socio-culturali tra protestanti ed ebrei aiutano l’incontro e il dialogo. Tuttavia, riflettendo più in profondità, al di là della forma e delle coincidenze, c’è qualcosa di più: scopriamo di “appartenerci”. Per vari motivi non amo l’espressione di Giovanni Paolo II, che disse che gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori — frase che comunque segnò una grande apertura. Non mi piace perché è un tentativo cristiano di dire chi sono gli ebrei, mentre la domanda primaria dovrebbe essere “Chi siamo noi cristiani?”

Chi siamo? Incontrando un ebreo, un cristiano può scoprire di essere anch’egli un po’ ebreo, “diversamente ebreo”. Le diaspore che s’interrogano sulla propria identità e che si aprono al dialogo, iniziano così un percorso di ritrovata fraternità. Non c’è solo cultura e affinità, ma la scoperta della presenza di Dio in mezzo a noi, presenza di cui gli ebrei si rendono continuamente consapevoli indossando la kippah e che, a volte, noi cristiani dimentichiamo. È la presenza Dio della liberazione, Dio della riconciliazione, Dio che ci raccoglie tutti e tutte dalle rispettive diaspore, perché, in fin dei conti, a Lui apparteniamo.

Immagine: Di Xerones – Flickr, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1613555