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Più detenuti, meno diritti

Stamane è stato presentato il XIII rapporto annuale di Antigone, osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia, che traccia una fotografia sulla situazione delle nostre carceri e sul nuovo aumento delle presenze negli ultimi due anni. Nonostante gli incentivi alle misure alternative, le proposte degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, i numeri tornano a crescere fino a 56.436 che è l’attuale numero di persone detenute. Alessio Scandurra, di Antigone, ne ha parlato con noi.

Nel rapporto non si parla solo dell’aumento dei numeri, ma dal sovraffollamento dipendono anche molte altre tematiche: è così?

«Sì, sovraffollamento significa anche una quantità di risorse limitate. Immaginiamo per il lavoro, meno detenuti ci sono, più lavorano, in proporzione. Abbiamo visto che quando cala il numero di persone, anche altri indicatori migliorano: c’è una percentuale più bassa di persone in custodia cautelare, meno persone in carcere con pene molto brevi. L’idea è che un carcere con numeri bassi è da molti punti di vista un carcere che assomiglia a quello che la Costituzione ha disegnato e come le leggi lo dovrebbero far funzionare. Numeri più bassi consentono più libertà all’amministrazione penitenziaria, per fare miglioramenti e investimenti, per esempio. I numeri non sono esplosi, ma dal 2015 c’è stata una crescita graduale che si consolida. Nell’ultimo semestre la popolazione detenuta è cresciuta di 1500 persone, nel semestre precedente di 1100. A quel punto si fa presto, se non si trova una strada diversa, a tornare allo stato di emergenza, alle condanne dell’Europa e così via».

Se parliamo di sovraffollamento, quali sono le limitazioni per le persone, a parte avere ovviamente meno spazio?

«Il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute, per esempio. Più si caricano le risorse di persone da curare, più si deteriora il servizio. Ma anche il clima detentivo cambia, perché non è un luogo di vita facile, ma l’essere più stretti e sentire violati i propri diritti porta a conseguenze negative. In carcere c’è colui che è il carnefice, l’autore del reato: se non c’è attenzione ai diritti, rapidamente si percepisce come vittima. Invece di essere portato in un luogo di esercizio di legalità, trova un sistema che funziona nell’illegalità, diversa da come le leggi dello Stato dovrebbero prevedere. Allora si consolida la sua idea di una contrapposizione tra lui e lo Stato. Questo fa malissimo anche alla sicurezza dei cittadini».

Tema di questo periodo è sicuramente la radicalizzazione: qual è lo stato dei lavori su questo aspetto?

«C’è una quantità enorme di lavoro da fare, perché noi, ma anche l’amministrazione penitenziaria stessa, non conosciamo la cultura di fondo in cui si collocano questi fenomeni, che diventano molto difficili capire. Servono capacità specialistiche che non si trovano in abbondanza in un paese come l’Italia: in Francia, per esempio, una fetta molto grande della polizia penitenziaria è composta da immigrati di seconda generazione, cittadini francesi ma di origini varie. Parlano la lingua, capiscono cosa accade nella sezione detentiva, vedono e riescono decodificare ciò che accade. Noi non abbiamo questa risorsa diffusa e quindi è molto difficile. In generale il carcere è un luogo di proselitismo, dove ci sono persone disperate, che vivono in condizioni difficilissime, di radicale fallimento e crisi del proprio progetto di vita e sono in cerca di strade percorribili. Questo rende la cella un terreno fertile per la radicalizzazione, della quale l’amministrazione penitenziaria ha una grande esperienza ma totalmente diversa, poiché negli anni ’70 i detenuti venivano radicalizzati dalle organizzazioni politiche. Ci sono elementi di novità enorme per i quali bisogna attrezzarsi».