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L’Iran al voto, tra speranze e disillusione

Nella giornata di oggi in Iran si vota per eleggere il prossimo presidente della Repubblica. Superato il lungo e rigido processo di selezione, che spetta al Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, i cittadini iraniani possono scegliere tra quattro candidati. Soltanto sei avevano superato la scrematura operata dai giuristi, ma due si sono ritirati alla vigilia del voto.

Tutti gli osservatori sono d’accordo sul fatto che il voto di oggi sia un “testa a testa” tra il presidente uscente, Hassan Rouhani, che aveva vinto le elezioni nel 2013 grazie allo slogan “moderazione e prudenza” interrompendo gli otto anni di isolamento durante l’amministrazione di Mahmoud Ahmadinejad, e Ebrahim Raisi, candidato della coalizione Fronte popolare delle forze della rivoluzione islamica.

Tra i temi più significativi sul tavolo, il futuro dell’accordo sul nucleare, firmato dall’Iran con gli Stati Uniti e i membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania, oltre alla situazione economica, che vede l’inflazione scesa al 10%, rispetto al 40% di quattro anni fa, ma una disoccupazione giovanile ancora sopra il 30%. Questa presidenza, inoltre, potrebbe essere quella durante la quale sarà necessario sostituire la Guida suprema, che controlla le forze armate, prende decisioni su sicurezza e difesa nazionale e su questioni-chiave di politica estera. L’attuale Guida suprema, Ali Khamenei, compirà 78 anni a luglio, e le sue condizioni di salute fanno pensare che possa essere rimpiazzato nell’arco dei prossimi quattro anni. La presenza di un presidente lontano dai conservatori durante una scelta così delicata potrebbe avere conseguenze importanti per l’equilibrio di potere del Paese. Semir Garshasbi, attivista iraniano e collaboratore di Radio Beckwith, spiega che sarà necessario fare molta attenzione a quanto accadrà, perché le condizioni di sicurezza destano preoccupazione. ««Il ministero degli Interni – racconta – ha già dichiarato che nessuno ha il diritto di manifestare prima dell’annuncio dei risultati definitivi delle elezioni e il linguaggio utilizzato è stato abbastanza forte e intimidatorio nei confronti della popolazione. Lo stesso Rouhani ha chiesto ai suoi sostenitori di non manifestare».

È possibile dare una stima della partecipazione a questo voto?
«Dare un numero preciso dei votanti è quasi impossibile, perché i canali di controllo dei dati sono tutti nelle mani delle autorità. Ci sono soltanto delle previsioni: ieri, o anche oggi stesso, quando si parlava delle ipotesi di vittoria di Raisi o di Rouhani, il presidente uscente, si sono visti dei dati che non corrispondono tra loro. Per esempio un giornale vicino all’area cosiddetta riformista parla di una vittoria di un 55% circa dei voti al presidente uscente Rohani e il 44% a Raisi, il candidato vicino all’area cosiddetta conservatrice e religiosa della Repubblica islamica».

Hassan Rouhani è il presidente uscente ed è noto in Occidente soprattutto per l’accordo sul nucleare. Invece, che cosa si sa di Raisi?
«Lui esce da una carriera abbastanza importante dal punto di vista sia religioso sia politico, perché è a capo di una grande fondazione nella città santa sciita di Mashhad, una fondazione ricchissima, multimiliardaria, che gestisce moltissime attività turistiche e nei settori di produzione e agricoltura.
A noi ricorda moltissimo il periodo buio degli anni Ottanta, quando venivano fucilati nelle carceri iraniane migliaia di oppositori iraniani, moltissimi gruppi, dai mujaheddin ai feddayin, dai tudeh, ai curdi, e molti di questi addirittura non applicavano e non seguivano la lotta armata contro il regime, ma semplicemente volevano chiudere questa pagina con l’opposizione democratica in Iran. Ecco, lui è responsabile insieme ad altri tre presenti nei documenti della stessa Repubblica islamica; ci sono anche registrazioni nelle quali loro parlavano di come procedere per eliminare questi “disturbi” che erano all’interno della società iraniana e che erano anche complici della rivoluzione islamica».

In un sistema, come quello iraniano, in cui decide sempre un organo nominato direttamente dalla Guida suprema, ha senso la distinzione tra conservatori, moderati e riformisti?
«Questo è un paradosso, perché nei media occidentali si parla di questa divisione, ma se guardiamo e torniamo indietro agli 8 presidenti che ci sono stati dalla Rivoluzione a oggi, vediamo che molti di questi candidati di fatto che non appartengono a nessun partito politico e semplicemente emergono a seconda delle condizioni in cui si trova il Paese. Per esempio adesso non c’è da meravigliarsi che i due candidati siano tutti e due religiosi, uno è hojjatoleslam e l’altro è diventato ayatollah da poco. Nella gerarchia sciita iraniana l’ayatollah è il livello massimo tra i teologi e il clero e Raisi lo è diventato da poco, quando l’anno scorso è stato elevato dalla sua carica precedente, quindi da hojjatoleslam è diventato ayatollah.
Molti osservatori, anche alcuni giornali inglesi già tempo fa, vedevano Raisi addirittura come un potenziale candidato al posto di guida suprema nel caso della morte di Ali Khamenei, e ci sono diversi elementi che lo fanno pensare, come quello di essere stato nominato a capo di una fondazione così importante dal punto di vista sia religioso, sia economico.
Non dimentichiamo però che Raisi ha anche una carriera da pubblico ministero e da giudice e ha scritto pagine nere della nostra storia».

C’è una partecipazione significativa a questo voto, ma per gli iraniani che andranno a votare oggi c’è in qualche modo la possibilità di cambiare le cose?
«Penso che una grande parte degli iraniani che oggi hanno deciso di andare a votare vadano a farlo con consapevolezza, perché si ricordano degli eventi del 2009, quando effettivamente erano andati alle urne per votare personaggi come Mir-Hosein Musavi e Mehdi Karrubi, che erano i candidati dei riformisti della Repubblica islamica, ma con grande stupore scoprirono che il loro voto non era andato da nessuna parte e aveva vinto il personaggio molto discusso di Mahmoud Ahmadinejad come presidente. Tutti ci ricordiamo il grande appoggio ad Ahmadinejad da parte di Khamenei e la grande repressione che era stata compiuta durante e dopo l’esito del voto. Il problema è che adesso la gente, malgrado questa storia, dice che bisogna andare avanti e riprovare ancora, per avere qualche minima possibilità di ottenere un po’ di libertà. Mi auguro che sia così, ma noi iraniani abbiamo anche un detto che dice che chi è stato morso da un serpente ha paura anche di una corda, perché somiglia a quello. Molti dicono che non è solo una questione psicologica, perché c’è anche la consapevolezza di aver instaurato un regime che è basato sul potere del clero. Il ruolo del presidente della Repubblica è un ruolo molto formale, ma nello stesso tempo è anche importante, perché se ci fosse il coraggio, che invece manca, si potrebbe anche cambiare qualcosa».

Si discute spesso dei divieti imposti alle donne. Anche quest’anno?
«C’è stata molto polemica anche in occidente rispetto alla presenza delle donne nello stadio, per il divieto che era stato loro imposto. Un blogger iraniano ha scritto una cosa simpatica dicendo che lo stesso governo di Rouhani aveva dichiarato in passato che non era mai dato il permesso alle donne di accedere allo stadio per eventi sportivi per rispetto dell’opinione dei leader religiosi, eppure per le elezioni le hanno fatte entrare. Ci sono molte immagini di donne che hanno partecipato a questo convegno di appoggio a Rouhani, e molte donne di propria iniziativa hanno fuori dei cartelli scritti a mano che recitavano “possiamo tornare allo stadio anche dopo le elezioni?”».

Quando conosceremo l’esito del voto?
«È sempre incerto, anche perché oggi si parlava addirittura di allungare i tempi delle votazioni. Probabilmente questo è anche legato alle questioni di sicurezza, e poi ci sono delle controversie tra il Consiglio dei Guardiani e il ministero degli Interni per quanto riguarda la gestione di questa fase».