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Dopo l’attentato di Londra, la prossima minaccia è la Brexit

Ieri la premier britannica Theresa May ha incontrato la premier scozzese Nicola Sturgeon, in attesa dell’avvio della procedura di Brexit, mercoledì 29 marzo, sottolineando come non sia il momento adatto per indire il nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia, che insieme all’Irlanda del Nord aveva votato in maggioranza nel giugno del 2016 per restare nell’Ue, e facendolo slittare alla fine del 2018.

Nel frattempo Londra sembra essersi ripresa in fretta dall’attacco terroristico del 22 marzo, che ha scosso i cittadini ma è servito per restituire compattezza e autorevolezza al governo britannico. Per capire l’umore e il clima inglese di queste ore, discutiamo con Simone Maghenzani, ricercatore italiano di Storia moderna all’università di Cambridge.

Theresa May aveva detto che si sarebbe tornati velocemente alla normalità: è così?

«Gli inglesi hanno reagito a questo attentato con il tradizionale senso di resistenza e senza dare troppa attenzione a questi fatti. Il paese si aspettava da tempo che qualcosa potesse capitare, come del resto è accaduto in altri paesi europei. Tutti sapevano che il Regno Unito, viste anche le scelte politiche dell’ultimo ventennio, era uno dei target più sensibili del terrorismo di matrice islamista. In questi giorni il paese ha visto la reazione migliore possibile, probabilmente date le circostanze, con un forte senso di unità. Il Governo ha reagito in maniera ferma ma al contempo confermando la volontà di non limitare i diritti civili e le libertà individuali dei cittadini. In questi giorni si è visto il meglio e il peggio di questo paese: da un lato l’incapacità di includere e creare percorsi democratici che favoriscano la piena integrazione delle minoranze; dall’altra atti di eroismo, come i parlamentari che hanno cercato di salvare la vita ai poliziotti, e una reazione civile e ponderata. In pochissimi giorni il paese è andato oltre, i problemi evidenti che abbiamo difronte ora sono i rapporti con l’Unione europea».

Ma questo attentato potrebbe rappresentare un punto di svolta, soprattutto per la vita quotidiana dei cittadini?

«Lo spartiacque è stato sicuramente con l’attentato del 2005, che colpì la metropolitana di Londra e in cui la paura era entrata in maniera davvero inaspettata nelle case delle persone, nelle vite quotidiane. In questo momento l’attentato arriva con molta meno sorpresa. Il Governo ha lasciato al ministro degli Interni alcune responsabilità e non sappiamo ancora tutto delle indagini. Ma in questi cinque anni sono stati sventati molti attacchi di cui la popolazione non ha neanche coscienza: c’è questo grande senso di affidamento al Governo, senza troppe voci di opposizione, anche perché non ha dichiarato iniziative securitarie oltre all’ordinario. In questi giorni è aumentato il numero di poliziotti visibili, ma più per rassicurare che per poter davvero sconfiggere il fenomeno, cosa pressoché impossibile, come ha ricordato il primo ministro. Ciononostante, politicamente è evidente che il governo rafforza la sua protezione, il suo prestigio e il suo senso di leadership uscendo da questa vicenda. Sulla metropolitana di Londra c’era un cartello che diceva: “informiamo i terroristi che siamo inglesi, prenderemo una tazza di tè e continueremo ad andare avanti”. Una battuta che però rende l’idea dell’atteggiamento medio in questo momento».

Come è intervenuta nel dibattito la Chiesa di Inghilterra?

«L’arcivescovo di Canterbury, la cui residenza è esattamente di fronte al ponte su cui è avvenuto l’attentato, ha ovviamente reagito con una posizione aperta e tollerante ricordando a tutti di distinguere tra l’attentatore e l’Islam: non è un caso che ieri un gruppo di donne islamiche, tutte velate, si siano tenute per mano coprendo l’intera lunghezza del ponte di Westminster, offrendo un’altra immagine dell’Islam rispetto a quella che spesso anche i media vogliono far trasparire. La Chiesa d’Inghilterra, con le sue molte ambivalenze, ha saputo rappresentare una voce per le varie comunità di fede in questi anni, anche lontane da quelle cristiane, chiedendo un riconoscimento di diritti e chiedendo alle comunità un passo di responsabilità. Il problema vero è il fallimento delle politiche inclusive e sociali, che hanno portato la radicalizzazione come un possibile linguaggio e come una possibile risposta all’esclusione. Quest’ultima è quella con cui fare i conti: non è un caso che ci si radicalizzi nelle prigioni, nei luoghi di isolamento e di esclusione. Il dramma è che oltre ai discorsi, non si riesce ad affrontare questo problema, che è comune a tutti i paesi occidentali. Questa persona, per esempio, era sola; una vicenda di questo genere è una storia di solitudine esistenziale e sociale, un racconto di morte su cui bisogna dare risposte politiche. E su questo i governi europei faticano a trovarle».

Con quale spirito e con quale umore si sta arrivando alla procedura di attivazione della Brexit?

«Teresa May ha incontrato la prima ministra scozzese Nicola Sturgeon, un incontro tra i più tesi tra quelli preparatori a Brexit. L’uscita dall’Unione europea sta mettendo a rischio un’altra unione, con la richiesta del partito indipendentista scozzese di un altro referendum. La Brexit ha aperto un vaso di Pandora, con un sacco di conseguenze, molte delle quali il governo stesso non ha idea di come risolvere. I temi intorno a Brexit, come essere o no nell’unione doganale o essere nel mercato comune, oppure il controllo sull’immigrazione, rimangono aperti sul tavolo. La narrazione politica di questi mesi da parte del governo è quella in cui Theresa May vuole inventare una nuova global Britain, che sappia negoziare e commerciare in giro per il mondo. A che prezzo, per esempio per i diritti dei lavoratori? È un’altra questione che resta aperta. Sono tanti i nodi che presto verranno al pettine, come i diritti dei tre milioni di europei che risiedono nel paese legalmente e che contribuiscono alla tassazione e quello del milione dei cittadini britannici che risiedono in Unione europea. Questo governo non si è ancora reso conto che il vero nodo sarà capire come procederanno le elezioni francesi e tedesche: fino ad allora saremo a dei preliminari e dei giochi tattici».

Immagine: via Flickr – frankieleon