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In Germania le chiese contro i rimpatri forzati

Corridoi umanitari alla rovescia. Il deleterio accordo firmato a Kabul lo scorso 2 ottobre fra le forze governative afghane e l’Unione Europea che ha dato il via ai rimpatri dei cittadini afghani che non hanno i requisiti per entrare e risiedere nel vecchio continente, in cambio di 16 miliardi di euro in aiuti, continua a essere al centro delle attenzioni delle chiese evangeliche e di quella cattolica tedesca, essendo la Germania il paese che per primo ha dato corso ai nuovi patti.

Una nazione, l’Afghanistan, dilaniata dalle violenze e con un’elevata instabilità politica, dal momento che intere aree sono sotto il controllo dei terroristi del califfato islamico, e che ora dovrebbe accogliere circa ottantamila profughi di ritorno, molti dei quali paradossalmente non hanno mai messo piede in quella che sulla carta dei documenti è la loro patria, essendo nati e cresciuti nei campi profughi pachistani e libanesi.

Nei giorni scorsi è partito il terzo charter, con 18 afghani a bordo, che portano a 80 il numero dei rifugiati che la Germania ha obbligato a tornare nel luogo da cui sono fuggiti.

Cresce in terra tedesca il numero di coloro che si indignano per la drasticità delle misure. Fra le tante associazioni umanitarie che stanno aspramente criticando le manovre del governo Merkel, in prima fila spiccano le chiese evangeliche e quella cattolica. In un comunicato congiunto il pastore Manfred Rekowski, presidente del Consiglio per la migrazione e l’integrazione della Chiesa evangelica in Germania (Ekd) e monsignor Stefan Hesse, presidente della Commissione per le migrazioni della Conferenza episcopale tedesca, hanno criticato le recenti disposizioni: «Nessun uomo dovrebbe essere rimandato in un luogo in cui la sua vita è minacciata dalla guerra e dalla violenza – si legge nella nota-. La sicurezza della persona deve sempre prevalere su considerazioni di politica di immigrazione».

I due rappresentanti delle principali chiese cristiane del paese non si dicono contrari al principio del rimpatrio legato alla mancanza dei requisiti e delle condizioni legali per l’accoglienza, ma sottolineano come «le deportazioni in luoghi pericolosi non sono accettabili, e secondo i rapporti delle Nazioni Unite far rientrare i rifugiati in Afghanistan è una scelta umanitaria irresponsabile».

Negli ultimi giorni hanno preso la parola anche l’arcivescovo di Monaco e presidente della Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea Reinhard Marx, e il vescovo luterano e presidente della Chiesa evangelica in Germania Heinrich Bedford-Strhohm per definire «estremamente discutibili i rimpatri», invitando a valutare con molta attenzione ogni singolo caso. «Siamo molto preoccupati per tutte quelle persone che sono qui da tempo, che hanno imparato la lingua, per le quali abbiamo speso tempo e denaro per favorirne l’integrazione, e che ora rispediamo indietro creando un panico diffuso».

Le due denominazioni cristiane continuano una strettissima collaborazione sul tema dell’accoglienza dei migranti, e al contempo crescono sempre più anche in Germania “le chiese santuario”, che si attivano per proteggere donne, uomini e bambini dal rimpatrio forzato verso qualsivoglia nazione. Erano 200 le chiese evangeliche e cattoliche che nel 2015 ospitavano 359 profughi, cifre cresciute a 277 chiese e 449 ospiti nel 2016. Ora nei primi mesi del 2017 il numero si è impennato a 329 luoghi di ricovero e 557 persone in qualche maniera sottratte dall’azione diretta delle leggi dello Stato. Una sfida non di poco conto.

Come sembra lontano il 2015, quando la Germania dell’allora fortissima cancelliera Angela Merkel autorizzò l’ingresso di oltre un milione di profughi nel paese. Ora, dopo le tante critiche ricevute per questa disposizione, e con le elezioni alle porte (i sondaggi danno la Merkel in forte difficoltà), il vento pare cambiato. E a farne le spese sono chi nemmeno sa di cosa stiamo parlando.

C’è da dire che quello tedesco non rappresenta un unicum: Regno Unito, Svezia, Danimarca e soprattutto Norvegia da anni praticano rimpatri, chi in maniera saltuaria chi con maggiore regolarità, nonostante i pareri contrari fra gli altri anche delle autorità governative di Kabul, spaccate sull’opportunità o meno di siglare gli accordi con Bruxelles.

Immagine: via Flickr – Freedom House