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La speranza dell’Afghanistan

Dopo una recente inchiesta, gli Stati Uniti hanno ammesso la responsabilità della morte di 33 civili durante un’operazione militare nel villaggio di Boz, nella provincia di Kunduz, nel novembre 2016. Sono ancora diecimila le unità militari statunitensi presenti nel paese, in una guerra “lampo” che va avanti dal 2001. Ora l’esercito statunitense invierà altri 300 marines per addestrare le forze afghane nella provincia di Helmand ed è notizia di questi giorni che la Nato abbia inviato 200 soldati nella provincia occidentale di Farah, dove nei mesi scorsi si sono intensificati gli scontri con i talebani. Secondo le analisi militari, la forza talebana ha ripreso piede dopo la fine della missione Nato nel 2014, detenendo la maggior parte del territorio nella provincia di Helmand da dove i gruppi attaccano gli altri distretti.

Una situazione drammatica che ancora una volta ricade sulle spalle della popolazione civile, come testimonia il costante lavoro di Emergency, presente dal 1999 in un Paese nel quale ha costruito un centro chirurgico e un centro di maternità ad Anabah, nella valle del Panshir, un centro chirurgico a Kabul, un ospedale a Lashkar-gah e una rete di centri sanitari e di primo soccorso. Ne parliamo con Manuela Valenti, pediatra dell’organizzazione.

L’invio e lo spostamento di truppe occidentali ci dice che si sta aprendo un nuovo fronte o semplicemente siamo davanti a un luogo di conflitto già conosciuto?

«Non c’è stata mai nessuna chiusura di nessun fronte, e quindici anni di guerra non hanno portato a nessun miglioramento per le condizioni della popolazione: non hanno portato strade, infrastrutture, scuole o sanità, cose di cui il paese aveva bisogno. Non dimentichiamoci che l’Afghanistan era già in guerra ben prima dell’invasione statunitense del 2001: almeno dal 1979, prima per l’invasione sovietica e poi per gli attacchi talebani. Quasi quarant’anni di conflitto hanno destabilizzato completamente il Paese. Negli ultimi quindici anni gli scontri non si sono mai ridotti, ma anzi, nei nostri ospedali, soprattutto Kabul o Lashkar-gah, che si trova in una delle provincie più interessate dai conflitti, abbiamo registrato un incremento di vittime, soprattutto civili».

Il protrarsi del conflitto in questi anni ha portato una trasformazione nel vostro intervento umanitario?

«Le necessità rimangono sempre le stesse: gli ospedali che si occupano di chirurgia di guerra hanno sempre più feriti, quindi abbiamo dovuto allargare i reparti di degenza e migliorare le attività nelle terapie intensive perché la situazione è sempre peggiore. L’altro ospedale che abbiamo nella valle del Panshir, che non è mai stata direttamente interessata nei conflitti, ci permette di fare attività diverse, al punto che abbiamo anche un reparto di maternità. Tuttavia, anche lì le condizioni sanitarie delle persone non sono per niente migliorate: si pensi che dopo quindici anni di conflitto e tutti i soldi spesi, solo dall’anno scorso le grandi agenzie internazionali hanno riconosciuto l’Afghanistan come un paese a rischio per malnutrizione infantile. Siamo nella direzione contraria al miglioramento di un paese».

La narrazione sull’Afghanistan ha sempre un’assenza, quella degli afghani, al punto da far sembrare che si tratti di un Paese completamente eterodiretto. Eppure la popolazione civile esiste: come accoglie il vostro lavoro?

«Ci ha sempre accolto a braccia aperte, abbiamo sempre curato le persone indipendentemente da qualsiasi divisione. Uno dei grandi errori che sono stati fatti in Afghanistan è stato quello di non tenere in considerazione la popolazione locale, la storia e la cultura del paese. Non le etnie, non i loro usi, non i loro costumi, che noi conosciamo perché lavoriamo a fianco a loro. Costruiamo ospedali e li gestiamo completamente, ma la percentuale di personale espatriato che ci lavora è minima rispetto a quella di personale locale: medici, infermieri, cuochi, persone che si occupano delle pulizie, giardinieri e quant’altro. Tutti sono felici della nostra presenza perché portiamo sanità di buona qualità e gratuita, mentre in questi Paesi la sanità nelle strutture governative è sempre a pagamento. Nelle zone circostanti tutte le famiglie hanno avuto almeno una persona curata da noi».

Quali prospettive ha questo Paese?

«È la domanda più difficile alla quale rispondere. Ecco, una cosa che è cambiata in peggio è la scomparsa della speranza: dopo le ultime elezioni pensavano che forse qualcosa potesse cambiare, ma non è stato così. In questi ultimi anni accade una cosa nuova: molti colleghi afghani dicono che se avranno la possibilità di lasciare il paese lo faranno. L’Afghanistan è un paese meraviglioso, con una popolazione estremamente fiera nonostante i quarant’anni di guerra. Non perdere il loro attaccamento al Paese, e con sé la speranza di un futuro, è fondamentale».

Immagine: via pixabay.com