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La pluralità di narrazioni serve più della «verità»

Platone odiava Gorgia. Lo odiava perché era un retore, un «incantatore di serpenti» che si serviva della parola, anzi delle belle, affascinanti, attraenti parole, per dire il falso. Come bufale sul web! E lui, Platone, così sicuro, come scrive nel Cratilo, che semplicemente vero è il discorso che dice le cose come sono e falso quello che le dice come non sono (non era ancora nato Nelson Goodman secondo cui il mondo non è mai un dato oggettivo) non poteva ammettere che la verità sia quanto di più complicato, opinabile, provvisorio, contestabile che esista, ovviamente in questo mondo. Già i presocratici distinguevano la verità assoluta, la doxa (opinione) plausibile e la doxa fallace.

Insomma, nella penombra in cui è immersa la conoscenza dell’umanità, sin dai tempi antichi la verità costituiva tema di dibattito e c’è da credere che nessuno sarebbe stato così inconcludente (o in malafede) da chiedere a dei poveri giornalisti di essere portatori di una verità sulla cui definizione fino a questo momento gli esseri umani non si sono messi d’accordo. Perché aspettarsi dai cronisti qualcosa che neppure dal pastore sul pulpito ci si aspetta? Quante volte, per esempio, sulla resurrezione alla fine della predica ci capita di pensare «Speriamo sia così!»? Il dubbio eppur ci assale! L’essere umano vuole verifiche, dimostrazioni, «vedere con i propri occhi» come se i nostri occhi fossero tanto attendibili!

In un contesto di siffatta complessità dai giornalisti, però, si pretende qualcosa, la mitica verità oggettiva, che sarebbe più legittimo pretendere, per esempio, da coloro che governano le nostre città, il nostro Paese o che amministrano la giustizia. I giornalisti in Italia sono vincolati da una miriade di leggi a partire dalla legge 69 del 1963 che all’articolo 2 impone il rispetto della «verità sostanziale dei fatti» e obbliga a rettificare le notizie inesatte. Perché, questo è il punto, i giornalisti più che la verità devono dare notizie. Sembra brutale dirlo così, ma i giornalisti non sono, non devono, essere depositari di alcuna verità ed è bene che non si auto-percepiscano come tali. Il bravo giornalista è chiamato a essere un onesto osservatore e narratore di fatti (ci sarebbe da spendere due parole su che cosa siano i «fatti»). Più è umile, cosciente dei limiti suoi e della mutevole materia che tratta, e meglio lavora. E più ce ne sono che osservano e raccontano e meglio è. Magari narrazioni diverse che a volte facciano sobbalzare il pubblico che si chiede «ma chi dice il vero?».

Su questo la Bibbia è maestra. Quante narrazioni contiene! Specialmente quel ventaglio variegato di storie che è l’Antico Testamento, davanti a pagine che gli scriventi non hanno censurato, vorremmo censurarle noi che, «illuminati» del XXI secolo, ambiamo a Una spiegazione a senso unico, Una versione ufficiale, Una interpretazione autentica. Per i giornalisti l’obiettivo massimo è la «verità putativa»: in buona fede raccogliere dati, testimonianze, verificare fonti, riportare diversi punti di vista, approfondire anziché limitarsi a fotografare la superficie, farsi scrupolo… ma alla fine resta la soggettività dell’interpretazione e guai chi ce la tocca. Anziché puntare all’impossibile realizziamo il possibile: che gli umani, sin dai banchi di scuola, imparino a usare il cervello? Pensare uguale ragionare, ragionare uguale interrogare. Così che leggendo più giornali, ascoltando più televisioni, navigando nel web, nessuno si lasci ingannare da «spiriti seduttori», ma ne usciamo arricchiti «sempre più in ogni genere di conoscenza e in ogni genere di discernimento» (Fil. 1, 9). E chissà se questo spirito di ricerca (meglio sarebbe scriverlo con la S maiuscola?) non ci porti davvero Là dove aspiriamo ad arrivare!

Immagine: By http://www.flickr.com/photos/yourdon/ – http://www.flickr.com/photos/yourdon/3076622657/, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11900522