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Tra paura e repressione, la Turchia dopo l’attentato di Istanbul

L’attentato avvenuto sabato 10 dicembre nei pressi dello stadio Vodafone-Besiktas di Istanbul segna un nuovo capitolo nella storia recente turca, fatta di violenza, paura e autoritarismo. Il bilancio dell’attentato è di 44 morti, mentre la reazione del governo turco ha portato all’arresto di 235 persone considerate vicine agli ambienti politici filocurdi. Le esplosioni, avvenute due ore dopo la fine della partita di Süper Lig, la Serie A turca, tra i padroni di casa del Beşiktaş e gli avversari del Bursaspor, e hanno colpito in modo quasi esclusivo le forze dell’ordine, ancora presenti nell’area.

Immediatamente dopo l’attentato, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato che «ogni volta che la Turchia fa un passo positivo verso il futuro, i terroristi rispondono con il sangue e il caos» e ha subito puntato il dito verso il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il principale gruppo separatista del Paese. Poche ore dopo, tuttavia, è arrivata la rivendicazione da parte del gruppo terroristico Tak, sigla che indica i “Falchi per la liberazione del Kurdistan”, un movimento estremista fuoriuscito dal Pkk in polemica con i tentativi di dialogo degli scorsi anni, bruscamente interrotti nel 2015.

L’attentato, che è stato condannato da tutte le forze politiche, ha immediatamente scatenato una dura repressione da parte delle autorità turche, che hanno deciso di colpire ambienti politici prima ancora che paramilitari, arrestando almeno un centinaio di membri del partito filocurdo Hdp, che aveva espresso solidarietà con le vittime. «Non esitate a usare i poteri e i diritti che la legge vi dà per combattere il terrorismo – ha aggiunto Erdogan – . Se mostrate misericordia a un tiranno, tradite gli oppressi. Non trattate mai con misericordia un tiranno».

Secondo Lorenzo Marinone, caporedattore per il Medio Oriente della rivista East Journal, «la rivendicazione da parte del gruppo Tak è attendibile per diversi motivi. Prima di tutto – racconta – per il profilo di questo gruppo, che combatte per la causa indipendentista curda ed è radicato soprattutto nelle grandi città della Turchia, in particolare Istanbul e Ankara. Al contrario, il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, ha la sua zona di massima influenza nel sudest della Turchia, attorno a Diyarbakir, al confine con la Siria e l’Iraq, nel Kurdistan turco più propriamente detto».

Anche le modalità di azione sono compatibili?

«Sì, questo è il secondo motivo: il Tak è un gruppo che compie azioni violente sia utilizzando esplosivi, come appunto è successo in questo caso, sia con attentatori suicidi. In Turchia non sono molti i gruppi che lo fanno, ma il Tak è uno di questi. Un altro gruppo che utilizza attentatori suicidi e su cui si potevano concentrare i sospetti è un’altra sigla, perché la Turchia è piena di sigle, ed è DhkPc, che è un gruppo molto piccolo di estrazione marxista-leninista che l’anno scorso aveva compiuto anche qualche attentato. Insomma, in generale il modus operandi di questi attentati rientra perfettamente in quello che è il profilo del Tak.

Come mai in questo caso prima della rivendicazione non si è pensato che l’autore dell’attentato potesse essere il gruppo Stato islamico?

«Per un motivo in particolare: al contrario di quello che ha detto Erdogan a poche ore dall’attentato, e cioè che l’attacco era stato fatto per massimizzare il numero delle vittime, in realtà è successo esattamente l’opposto, perché è vero che l’autobomba è stata fatta esplodere all’uscita dello stadio del Besiktas, ma soltanto parecchi minuti dopo che la partita era finita, quando i tifosi erano già defluiti e rimanevano in zona solo camionette della polizia. Se si fosse veramente voluto massimizzare il numero delle vittime e quindi la portata dell’attacco, allora l’autobomba sarebbe dovuta esplodere nel momento in cui la partita era appena finita. La caratteristica di colpire principalmente forze dell’ordine, polizia ed esercito, e cercare al massimo di non colpire i civili è esattamente quello che anche esplicitamente riconoscono di sé gruppi curdi come il Pkk e il Tak».

C’è un motivo dietro alla tempistica di questo attentato?

«Una coincidenza che non può passare inosservata è che l’attentato è avvenuto nella notte tra sabato e domenica scorsi, ed esattamente sabato in parlamento era stata presentata la riforma presidenziale, una riforma presidenziale che introdurrebbe in Turchia un presidenzialismo forte con tantissimi poteri concentrati nelle mani del presidente, prima di tutto quello esecutivo, ma con un vasto controllo sul giudiziario e sul legislativo. Il presidente, infatti, rimarrebbe anche a capo del proprio partito di provenienza e quindi potrebbe condizionare l’azione del parlamento. La riforma presidenziale è ovviamente osteggiata dalle opposizioni, sia dai kemalisti del Chp sia dal partito filocurdo Hdp, e ovviamente anche dai gruppi separatisti come il Pkk o anche gruppi terroristici come il Tak».

Cosa si voleva ottenere colpendo la polizia?

«Colpire le forze dell’ordine è qualcosa che è avvenuto molto spesso in questi ultimi due anni in Turchia. Non tutti gli attacchi però sono così chiari: in molti casi si tratta di sparatorie, quindi di azioni meno complesse e con minori ricadute, e in questo caso non vengono rivendicati da nessun gruppo. Ecco, in questi casi le autorità individuano solitamente nel Pkk il colpevole, ma lo stesso gruppo ogni volta nega di essere coinvolto perché sostiene di rivendicare tutte le azioni di cui è effettivamente responsabile».

Il messaggio comunque è sempre quello di colpire lo Stato come istituzione ostile.

«In questi anni abbiamo visto che Erdogan ha cercato di capitalizzare al massimo tutti i vantaggi che poteva avere, l’ha fatto senza guardare in faccia nessuno, con il pugno di ferro, con una repressione molto dura, ad esempio nel Kurdistan turco, aveva bisogno ovviamente di avere dalla sua forze dell’ordine ed esercito. Questo impone di formulare un’ipotesi, che però non può essere provata né confermata, e quindi rimane al livello di un’ipotesi e nulla più, ed è quella per cui tutto questo in realtà rientri in una sorta di strategia della tensione, più o meno sulla falsariga di quella che noi in Italia abbiamo conosciuto tra anni Settanta e anni Ottanta. In questo caso è possibile che ci siano dei cosiddetti false flag, cioè degli attacchi che in realtà non sono frutto di gruppi separatisti o di organizzazioni terroristiche, ma sono il prodotto di servizi deviati, di uno Stato parallelo che in questo caso non è Fetullah Gulen, il presunto responsabile del golpe dello scorso luglio, ma è qualcosa che avviene in ambienti un po’ più sotterranei, all’interno dello Stato e delle autorità statali. Ripeto però che di questo non ci sono prove, per cui rimane un ipotesi».

Oltre ai poliziotti che hanno perso la vita, questi attentati danneggiano anche il partito di sinistra Hdp, la forza che rappresenta in Parlamento la minoranza curda?

«Sì, e sarà sempre peggio. Il motivo è semplice: l’Hdp è riuscita a entrare in Parlamento nelle elezioni del 2015, sia nelle prime sia in quelle suppletive di novembre, e questo non solo ha dato una forte rappresentanza politica alla causa curda, ma per com’è fatta la legge elettorale in Turchia, soprattutto per via dell’altissima soglia di sbarramento, al 10%, ha impedito all’Akp di Erdogan di avere, per esempio, un numero di seggi abbastanza alto per fare in totale autonomia quella riforma presidenziale che ora sta proponendo.

L’Hdp, insomma, ha rappresentato una delle minacce più forti al potere dell’Akp e di Erdogan, e la risposta di quest’ultimo non è stata quella classica della politica turca, cioè mettere fuorilegge il partito come da tradizione nel paese. Quello che Erdogan sta facendo è invece svuotarlo lentamente dall’interno, in modo meno eclatante e più dilazionato nel tempo, ottenendo però lo stesso risultato. In questo momento, infatti, sono almeno dieci i rappresentanti dell’Hdp che sono stati arrestati, compresi i due copresidenti del partito, Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, e dopo ogni attacco vengono arrestati non soltanto i deputati, ma soprattutto i rappresentanti locali. Quello che sta facendo Erdogan insieme alle autorità turche è svuotare un partito di tutta la sua presenza territoriale, il suo radicamento nel territorio, che è esattamente il modo più efficace per farlo scomparire dalla scena: togliere rappresentanza a milioni di persone. Lo scopo è abbastanza chiaro, perché a un certo punto bisognerà rimpiazzare questa rappresentanza, perché non si può pensare di arrestare dei deputati, dei rappresentanti politici, e poi sperare che la gente decida di votare per l’Akp. Ci saranno altri svolgimenti in questo senso».

Bruxelles ha deciso di esprimere la propria contrarietà nei confronti della dura repressione messa in atto da parte di Erdogan bloccando il processo di adesione della Turchia all’Unione europea. Questa è la risposta che serviva?

«No, perché si può condannare quello che sta succedendo in Turchia e condannare la repressione in molti modi, ed è stato fatta in modo troppo leggero dalle istituzioni europee e dai vari stati europei che possono avere un peso, come la Germania, che è considerata molto importante in Turchia. Quello che poteva fare l’Unione europea era alzare la posta in gioco: in questo momento, infatti, l’Europa è in un braccio di ferro con la Turchia sull’accordo del 18 marzo relativo ai migranti, e infatti il governo turco quasi quotidianamente minaccia di aprire le frontiere e far arrivare in Europa milioni di persone. In linea teorica in effetti potrebbe farlo. Quello che poteva fare l’Unione europea era rilanciare i negoziati in modo più preciso sui capitoli che riguardano più da vicino i diritti umani, mentre invece si è limitata a rilasciare una nota in cui si dice in sostanza “c’è la repressione, non ci piace e dovete diventare come noi. Fateci sapere quando sarete diventati come noi”, perché Erdogan ha ricevuto questa nota e immagino che si sia messo a ridere. Invece, andare ad aprire dei capitoli specifici vorrebbe dire sedersi a un tavolo e ribadire l’importanza di norme internazionali condivise, che vanno rispettate per consentire l’ingresso nell’Unione europea, e questo permetterebbe di incidere in modo puntuale, volta per volta, su una situazione che è in pieno divenire. Colpisce inoltre che il Partito socialista europeo e i vari partiti nazionali europei che fanno parte della “famiglia” socialista, abbiano salutato questa decisione con favore, mentre invece sia l’Hdp sia altri partiti in Turchia chiedevano esattamente l’opposto, cioè chiedevano di non congelare il processo di adesione, perché per loro questa decisione fa soltanto sì che siano completamente abbandonati».

Immagine: By Maurice Flesier – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50250328