arcidiacono

«L’accoglienza interroga il nostro essere membri di chiesa»

Un agriturismo saltato in aria con una bomba rudimentale in provincia di Olbia la scorsa settimana. Alcuni giorni prima una busta contenente due proiettili spedita alla prefetta di Cagliari Giuliana Perrotta, rea di voler trasformare una ex scuola penitenziaria di Monastir, alle porte del capoluogo, in un centro di accoglienza migranti. Scuola che a sua volta è stata in parte incendiata, giusto per far capire che di nuovi arrivi qui non si vuole sentire parlare.

Episodi gravi, inquietanti, che faticano a trovare spazio sui giornali nazionali, di solito attenti a dar risalto a simili atti, alcuni per stigmatizzarli, altri, troppi, per enfatizzarli o per lo meno per ammiccare pericolosamente ad una parte della società che reagisce in questo modo all’emergenza principe dei nostri giorni.

«Eppure questa è una terra di grande accoglienza e capacità di partecipazione attiva alle dinamiche sociali – ci racconta Cristina Arcidiacono, pastora battista in servizio proprio a Cagliari-. Quelli che stanno accadendo sono fatti gravi, segno di un inasprimento dello scontro anche politico sulla grande questione dell’accoglienza, ma sull’isola opera un tessuto di associazioni, enti, diaconie che sono la miglior risposta a chi cerca di seminare odio e paura».

Un’emergenza che tale non è più, nè così deve essere pensata, perché si tratta di quotidiana gestione di un fenomeno che interroga tutti gli attori pubblici, comprese le comunità di fede «che hanno varie vie per portare una testimonianza concreta del proprio essere – continua la pastora Arcidiacono. Da una parte ci sono i gesti, l’accoglienza (la Chiesa battista di Cagliari dall’indomani della primavera araba ha ospitato per un paio di anni due fratelli tunisini), la presenza nei centri di accoglienza  insieme a fratelli e sorelle di chiesa provenienti da altri paesi e che per primi hanno vissuto simili traversie (sono numerosi gli ospiti che chiedono alle operatrici e agli operatori di poter affrontare un percorso spirituale e, dal momento che sono numerosi i fedeli evangelici, ecco che una Bibbia da leggere insieme diventa strumento di avvicinamento). Ma dall’altra parte una simile realtà interroga anche la predicazione, il cui compito deve essere quello di saper stimolare la vita comunitaria ad un maggior coinvolgimento, a sentir proprie certe battaglie, a non vivere una fede “della domenica mattina”, a comprendere che certe sfide non vanno delegate ad altri ma coinvolgono in pieno anche la dimensione evangelica del nostro essere membri di chiesa». Sono molti i momenti interreligiosi in città, le preghiere ecumeniche che vengono organizzate su stimolo delle locali comunità musulmane, copte, evangeliche. «C’è sete di Dio in queste donne e in questi uomini che hanno attraversato deserti e mari per arrivare qui, e sta a tutti noi spenderci per un coinvolgimento maggiore. Gli operatori delle Asl, delle associazioni compiono un lavoro straordinario, ma non è certo compito loro anche incontrare la dimensione spirituale di chi hanno davanti. Qui dobbiamo esserci noi». Grazie agli spazi concessi dalla comunità battista di Cagliari ad esempio la folta comunità evangelica nigeriana ha potuto disporre di luoghi in cui organizzarsi, pregare e fare diaconia, accoglienza nei centri migranti, educazione dei nuovi arrivati nel tentativo di non vederli scomparire nel tunnel del mercato nero della prostituzione o del lavoro. «Un bel esempio di integrazione e collaborazione – conclude la pastora – che va proprio nella direzione di un agire insieme perché quello che a molti appare come un problema possa diventare anche una risorsa, in una terra che vive un pericoloso spopolamento e che dovrebbe preoccuparsi soprattutto di dotarsi di progettualità ad ogni livello perché i nuovi arrivi potrebbero dare una grossa mano al panorama anche economico della Sardegna».

 

Foto: Pietro Romeo