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L’Unione che non si riesce a difendere

Sono 17 milioni e 400 mila i cittadini del Regno Unito che hanno votato «leave», pari al 52% dei votanti. L’alta affluenza (72%) legittima un risultato inaspettato e divisivo, visto che a Londra (60%), in Scozia (62%) e in Nord Irlanda (56%) ha nettamente prevalso lo «stay». Le analisi di voto sono ancora acerbe, ma il quadro complessivo è chiaro: il Regno si è spaccato su linee geografiche e generazionali. Da un lato le capitali e le grandi città industriali dove peraltro studiano e lavorano europei di tutte le nazionalità (Londra, Manchester, Liverpool, Edimburgo, Belfast e persino Cardiff, in controtendenza con il Galles, hanno scelto lo «stay»); dall’altro il paese profondo, meno giovane, meno istruito e meno occupato che morso dalla crisi non conosce o non sa che farsene delle opinioni degli economisti, delle raccomandazioni del Fondo monetario internazionale, degli auspici dei «burocrati di Bruxelles», del parere del Presidente degli Stati Uniti. Il problema è che oltre Manica non molto altro ha difeso le ragioni dell’Europa politica.

La vittoria del «leave» è senza dubbio la sconfitta dell’«armata brancaleone» dello «stay», un fronte eterogeneo e pigro, incapace di argomentare su scala nazionale le ragioni storiche, razionali e ideali dell’europeismo. Se la responsabilità politica del referendum è di un premier giustamente dimissionario – era stato Cameron a promettere un voto sulla permanenza in Europa durante la campagna elettorale del 2015, proprio per aggiudicarsi il voto delle periferie – le ragioni della sconfitta sono ben più ampie e traversali: dalla tiepida campagna condotta dal partito laburista, in perfetta continuità storica con le disattenzioni che la sinistra europea ha sempre dedicato al processo d’integrazione, all’inquietante inerzia comunicativa delle istituzioni, dei funzionari e dei politici comunitari (l’Uk detiene ben 73 seggi nel Parlamento di Bruxelles!), incapaci di spiegarsi, di prospettare un futuro, di scaldare il cuore al cittadino della strada che dopo aver votato, per rabbia, «contro», nella solitudine della sua stanza ha chiesto a Google «What is the EU?», la domanda più digitata nelle ventiquattrore seguenti il referendum.

E noi del continente lo sappiamo cos’è l’Unione europea? Negli anni Ottanta il Presidente della Commissione Jacques Delors la definì un «oggetto politico non identificato»: meno di uno stato federale e più di una semplice organizzazione internazionale. Oggi l’immagine più utilizzata è quella di una maestra sovranazionale che elargisce «compiti a casa» a Stati indisciplinati: una metafora che, attenzione, non hanno coniato Farrage, Le Pen e Salvini, ma i fragili governi di coalizione che in ogni paese rintuzzano i forconi delle ultradestre usando a loro volta Bruxelles come capro espiatorio – un circolo vizioso potenzialmente distruttivo, che di recente abbiamo visto all’opera in Austria. Dagli anni cinquanta a oggi, mentre il processo d’integrazione si allargava e si approfondiva, i trattati internazionali su cui si regge l’Unione sono stati firmati da governi democratici, ratificati da parlamenti eletti o per via referendaria, nel rispetto delle diverse tradizioni costituzionali. Ma nel 2016 nessun governante di nessun paese sembra disposto a ricordare il percorso alla propria opinione pubblica. Invece di raccontare la rivoluzione di un’Europa politica cresciuta per consenso, per scongiurare la Brexit si è preferito agitare lo spauracchio della «reazione dei mercati», fare leva sulla paura dell’ignoto, trasformando l’Unione in una sorta di odioso status quo economico. Se gli argomenti dell’europeismo sono quelli ascoltati in questi mesi oltre Manica, viene da rallegrarsi che non abbiano vinto.

L’Unione che rischiamo di non raccontare – e dunque di non saper difendere – è invece un processo di pace e di convivenza: un esperimento lento e faticoso, nato dalle ceneri di due guerre mondiali, dall’idea di superare i confini tracciati dalle guerre – spesso religiose – dell’Europa moderna e dei Risorgimenti nazionali. L’Europa unita è una buona intenzione calata nella realtà del mondo, e in quanto tale non è certo esente da criticità: l’Europa politica che nasce nel dopoguerra è scelta autonoma e impero americano, è modello sociale e capitalismo, è libertà di movimento e abolizione di dazi doganali, è Parlamento di eletti e Consiglio di Stati sovrani, è pacifismo interno e geopolitica esterna. Periodicamente, ogni paese membro avverte i limiti di questa convivenza a partire dalla propria posizione economica e culturale. In Spagna, Italia e Grecia oggi la rabbia si rivolge all’austerità imposta da una Germania sempre più egemone (a sessant’anni dei Trattati di Roma l’Italia e gli altri paesi fondatori dovrebbero chiedersi il perché di questo squilibrio). In Francia si accusa l’Unione di essere «ultraliberista», ma gli euroscettici britannici hanno vinto la loro partita lamentando l’asfissia delle regole comunitarie; infine, a est, in buona parte dei neo-membri in transizione dal socialismo, le destre tradizionali denunciano l’imposizione di valori loro estranei, si pensi ad esempio alle rimostranze polacche e ungheresi seguite alle raccomandazioni europee sui matrimoni gay. Stare insieme tra diversi è difficile. È questo patrimonio di complessità, questo esperimento, certamente incompiuto e deficitario, di democrazia sovranazionale, che il proliferare di referendum nazionali rischia di mettere in pericolo nel nome di democrazie più piccole e diffidenti, chiuse dentro confini anacronistici. Spaventati da questo scenario d’arretramento, in queste ore europeisti tardivi raccolgono assurde firme per ripetere la votazione; al contempo la Scozia, dimentica della consultazione popolare del 2014, è tornata a minacciare l’indipendenza per poter rimanere nell’Ue. Siamo al paradosso di un’Europa che incentiva le secessioni, di referendum che si ripetono scadendo nel plebiscito.

E adesso, cosa succederà? Ci vollero 12 anni perché i britannici riuscissero ad entrare nella Comunità economica europea: dal 1961 al 1973, passando per 2 veti gaullisti e 2 referendum, uno in Francia l’altro nel Regno Unito. Quand’anche ci si attestasse sul ragionevole «modello Norvegia» – che non è Stato membro ma partecipa alla libertà di movimento di merci e persone – potrebbero volerci altrettanti anni per rinegoziare i rapporti tra isola e continente. E nel frattempo, cosa succederà, tanto per fare un esempio, al mezzo milione d’italiani residenti nel Regno? Dovranno ottenere un permesso di soggiorno come fossero negli Stati Uniti? Difficile immaginarlo, tuttavia è sullo stop all’immigrazione che l’ex sindaco di Londra Boris Johnson e il leader euroscettico Nigel Farrage hanno vinto la loro battaglia. Una vittoria del populismo sulla ragione, perché in febbraio il governo Cameron aveva negoziato con l’Unione pesanti esenzioni dai benefici fiscali per i lavoratori degli altri paesi Ue e una maggiore indipendenza delle società finanziarie con sede a Londra. È dai tempi di Margaret Thatcher che i britannici godono di «opt-out» strategici dai trattati comunitari (basti pensare alla non adesione al Trattato di Schengen), tanto che per molti analisti l’isola di Sua maestà, seppur rappresentata nelle istituzioni, già adesso non è pienamente «in Europa». Fatti, questi, che non sono emersi durante il dibattito, perché chi gode dell’Europa non si preoccupa di studiarla, capirla e difenderla.

È questo, forse, l’insegnamento che possiamo trarre, il monito da fissare su queste nostre piccole pagine: la Storia non è lo sfondo della nostra placida vita privata, non è un prodotto che si consuma. L’Europa che ci interessa, quella sognata dai federalisti che nell’agosto del 1943 si riunirono per la prima volta a Milano, nel salotto del valdese Alberto Rollier, ma anche l’Europa che a fianco dell’integrazione economica seppe crescere come «libera unione di minoranze», come isola di pace, come progetto strategico utile alla soluzione di problemi senza confini, dalle migrazioni globali al cambiamento climatico, è oggi messa in pericolo dai paesi e dai popoli che l’hanno voluta e costruita. I padri fondatori non ci sono più, tocca a noi figli scegliere cosa essere, se distruggere o rifondare la pace in cui siamo cresciuti.