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Insegnare la differenza tra vivere e vincere per sfidare il gioco d’azzardo

Il gioco d’azzardo patologico è un rischio sempre più grave nel nostro paese. La legge di stabilità 2016, richiamando una raccomandazione Ue del 2014, interviene per proteggere soprattutto i minori, ma tarda ad attuare il limite sul numero nazionale di slot machine, come annunciato dal Governo. Ad aumentare il rischio per i più giovani la pubblicità che, sui media tradizionali e su internet, li espone alla tentazione del gioco, sebbene una norma la vieti dalle 7 alle 22 sulle tv generaliste. I comuni spesso lottano contro la diffusione indiscriminata di luoghi del gioco d’azzardo, come nel caso di Verbania alla quale il Tar ha riconosciuto la ragione in una contesa con una ditta di slot machine, limitata nell’orario di apertura dall’amministrazione, o la provincia di Bolzano che ha vietato le macchinette all’interno delle tabaccherie. La dipendenza è le conseguenze sociali sono gli aspetti più importanti a cui guardare: ne parliamo con Franco Barbero, co-fondatore della Comunità cristiana di Base di Pinerolo, si è occupato dell’accompagnamento delle persone nell’uscita dalle dipendenze.

Si parla sempre pià di dipendenza dal gioco, che ne pensa?
«Nella mia piccola esperienza, lo trovo un fenomeno diffuso che riguarda tutte le età. Mentre in certi tipi di dipendenze ho notato più presente il ceto povero o persone abbandonate, qui ci troviamo a un fenomeno che interessa diverse fasce d’età, cosa che è preoccupante. Molte persone che ho conosciuto non stanno necessariamente in una condizione economica di disperazione, ma ho trovato in loro il “sogno del ricco”. Nella nostra società siamo abituati e spinti a fare nostro questo sogno e a sperare emozionalmente di diventare un giorno vincitori. Vediamo davanti a noi della gente che vince: viene a tutti la voglia di fare una bella vittoria. Credo che sia un immaginario gigantesco che invade e seduce i nostri cuori».

Un fenomeno che tocca sempre più i giovani e i giovanissimi…
«Mi preoccupa il fatto che si pensi che per vivere occorra vincere; bisogna, invece, dare un senso alla vita, con passi graduali, con la fatica, con gli ideali e la gioia di vivere. Dover vincere, comparire e piazzarsi in alto è un tormento, un’illusione, un idolo. Allora ciò che viene trasmesso ai giovani è un brutto approccio alla vita. Non dobbiamo vincere, dobbiamo vivere. Personalmente sono sensibile al messaggio del Vangelo, che è pieno di questo ammonimento. La scuola, la famiglia e tutti i luoghi di educazione devono riparlare della differenza che c’è tra vivere e vincere».

Il Vangelo racconta più di vinti che di vincitori, che ne pensa?
«La vittoria del Vangelo è di aver insegnato la solidarietà, nella testimonianza di Gesù di Nazareth. La nostra società deve diventare più attenta ai messaggi in cui la sobrietà sta al centro. Mi ricordo spesso quel passo dei Proverbi: un piatto di verdura con l’amore è meglio di un bue grasso con l’odio. Una lezione educativa sulla sobrietà, che significa anche disciplina, riempire la nostra vita di piccole cose che danno senso. Altrimenti non si dà una buona lezione, così come fa la politica, governata da ciò che rende, che porta un guadagno. Ciò che rende felici non è accumulare, ma comunicare e condividere. Ci va tanto lavoro per acquisire tutto ciò, che in effetti non si trova nella vita quotidiana a cui siamo abituati. Occorre essere educati a farlo, la condivisione non è insita dentro di noi, e i luoghi dell’educazione hanno una grande responsabilità. La libertà di consumare ogni limite, di andare oltre, è vera libertà? Il legislatore non deve praticare facili censure, ma educare alla consapevolezza del limite».

Come si parla alle persone che spesso hanno vite rovinate da questa patologia?
«Il paesaggio di chi ha questa dipendenza, spesso è la distruzione delle relazioni familiari. Il discorso è inefficace all’inizio, non ci si rende conto di quanto queste scelte di seduzione, queste dipendenze incidano rovinosamente nella vita di chi ci è vicino, distruggendo affetti, progetti e togliendo la pace delle relazioni. La vita diventa un gioco, non più un progetto. Nella mia esperienza, si tenta di radunare la famiglia, qualche amico, per far ragionare le persone. Le comunità terapeutiche tentano difficili percorsi, proprio perché questa tentazione è a portata di mano. La persona perde il senso di quanto incida il suo vizio. Recuperare la relazione è un passo decisivo. Chiedere aiuto non è facile, ma si può invitare a farlo».

Cos’altro serve per dare aiuto, secondo lei?
«Cercare la felicità in una vita sobria, nell’uso delle cose, non nella loro adorazione. Cosa c’è di più bello di avere il necessario e di poterlo ancora condividere? Questo però si impara dentro una disciplina, per me fonte della felicità. Chi oggi ci parla ancora di disciplina? Devo andare a Bonhoeffer per trovare qualcuno, ma disciplina significa gioire della vita. Imparare a essere alla pari con altri, sapere che da solo non vado da nessuna parte, che sono responsabile di altri come altri lo sono di me. Nelle nostre famiglie, comunità, associazioni è importante recuperare la gioia della disciplina».

Quindi la sua ricetta è composta da Vangelo, relazione e disciplina«Sì, anche se non tutti devono essere credenti; per me il Vangelo, laicamente vissuto, ha ispirato la gioia del non cercare nell’immagine e nell’idolo, nel denaro o nella figura sociale. Ma a cercare il senso profondo delle cose che facciamo e la loro bellezza di renderci fratelli e sorelle e aiutarci nella vita».

Foto: jaysoriano via Pixabay