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«Fino a qui tutto bene». Il modello dei corridoi umanitari ora interroga l’Europa

Vestiti per sé e per i suoi figli. Spezie, come lo zaatar, perché era sicuro che non ci fossero in Italia. E poi le sigarette. Sorride con ogni muscolo del volto Mahmoud quando, nel pomeriggio del 3 maggio, ci racconta che cosa aveva messo in valigia quel 29 febbraio quando è arrivato a Roma con un volo di linea durante il primo corridoio umanitario organizzato dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e dalla Comunità di Sant’Egidio nell’ambito del progetto Mediterranean Hope. Il ricordo di quel particolare è ancora vivo nella sua mante. Sono passati solo due mesi dall’arrivo di Mahmoud e dei suoi compagni di viaggio e ieri è stata la volta di altre 94 persone, giunte anch’esse in Italia con un corridoio umanitario dal Libano.

 

 

Il fatto che si tratti di una “seconda volta” dice molto di più rispetto al semplice dato numerico: complessivamente, le prime duecento persone arrivate in sicurezza nel nostro Paese sono certamente un risultato se le si considera nella loro dimensione di storia, di lacerazioni da ricomporre e di legami spezzati, perché raccontano che una migrazione umana, normale e inclusiva è possibile. Ma rappresentano anche un punto di partenza verso una nuova fase politica. Secondo l’ex ministro della cooperazione internazionale Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, «attraverso questa esperienza diciamo ai nostri amici dell’Unione europea che non possiamo essere una fortezza spaventata, e che che se ci si vuole chiamare Europa bisogna assumersi le proprie responsabilità. Un luogo fatto di muri non è più Europea, e l’esperienza dei corridoi umanitari mette insieme questo e molto altro: solidarietà, legalità, trasparenza, partecipazione».

Si tratta anche di un guanto di sfida per una politica che spesso si è trovata di fronte all’imbarazzo di non poter, o voler, agire e addirittura di negare diritti fondamentali come il soccorso in mare, mettendo a nudo una paura, quella di prendere decisioni che non può più essere ammessa. «Cinquecento milioni di europei – ricorda infatti il viceministro degli Esteri, Mario Giro, possono accogliere con calma e in sicurezza coloro che fuggono dalle guerre. Le istituzioni possono e devono fare molto».

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Un esempio concreto, per la politica, arriva dalle Chiese: a fine aprile, la comunità di Sant’Egidio ha lanciato un appello per la convocazione di un Sinodo ecumenico che coinvolga tutti i cristiani europei e affronti in modo sistematico la questione delle migrazioni. «È un appello che non cadrà nel vuoto – sottolinea il presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, Luca Maria Negro – anche perché l’impegno che quindici anni fa avevamo sottoscritto a Strasburgo con la Carta Ecumenica, che poneva le basi per un’accoglienza umana e dignitosa per i migranti tra tutti i cristiani europei, è ancora attuale, e il progetto dei corridoi umanitari è qui a dimostrarlo».

Nei prossimi mesi si apriranno anche gli altri due canali di questa iniziativa: uno in Marocco, dove si concentrano giovani donne e uomini, soprattutto subsahariani, in condizioni disperate, e uno in Etiopia, che riguarderà soprattutto chi fugge dalla dittatura eritrea. Tuttavia, il rischio che l’esperienza dei corridoi umanitari rimanga un progetto sperimentale è concreto, tanto sul piano nazionale che su scala continentale. «L’esigenza – racconta Daniela Pompei, responsabile delle politiche sull’immigrazione della Comunità di Sant’Egidio – è quella di allargare l’azione sia nei numeri che nella partecipazione. La sperimentazione dei corridoi umanitari sta portando a dire anche al governo e alle istituzioni “è possibile”. Speriamo che prima di tutto si riesca a riportare nella nostra legislazione uno strumento che un tempo era presente, quello della sponsorizzazione privata o associativa».

«Il nostro è un modello politico di intervento straordinario che consegniamo all’Europa – aggiunge poi Paolo Naso, della Fcei – ma è necessario che diventi un modello europeo. Il segno tangibile dell’apertura di un nuovo percorso migratorio sicuro ci sarà quando almeno un altro Paese europeo avrà adottato la nostra buona pratica. Speriamo che la Spagna sia la prossima, ma guardiamo con speranza anche alla Francia e ad altri paesi».

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Ora per queste persone si apre una nuova fase della vita in diversi luoghi d’Italia: a Torino e Milano, ospiti della Diaconia Valdese, a Novara presso la Comunità di Sant’Egidio, poi a Frosinone, Terni e Potenza, dove saranno accolti dalla fondazione Madre Teresa, altri ancora a Cetona vicino a Siena e a Roma presso istituti religiosi. Di fronte una pagina tutta da scrivere.

A Torino e Milano dove saranno ospitati i due gruppi più numerosi, l’accoglienza verrà strutturata in appartamenti affittati sul libero mercato a disposizione delle famiglie arrivate ieri.

Per qualcuno, come Mahmoud, questa nuova storia è già cominciata: oggi parla sereno seduto a uno dei tavoli del Casale San Damiano, ad Aprilia, dove da due mesi è ospitato insieme alla sua famiglia. Ma quella valigia del 29 febbraio non la dimenticherà facilmente perché è il segno di un prima e di un dopo nella sua vita. Ma è anche il simbolo di un passaggio tra questo prima e questo dopo avvenuto in condizioni di normalità e le grandi valigie di chi arriva sono lo specchio di questa normalità. «Il viaggio di queste persone è un viaggio dignitoso – racconta Francesco Piobbichi, di Mediterranean Hope – arrivano vestiti come noi, con i bagagli in cui mettono molto spesso i loro ricordi e le cose a cui tengono. Noi su questo abbiamo lavorato molto invitandoli a mettere nella valigia le cose che hanno portato via dalla Siria, come foto e altri oggetti».

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È con ogni probabilità l’immagine più potente di giornate come il 3 maggio o il 29 febbraio. Talmente potente da riuscire a incrinare l’idea stessa che abbiamo della frontiera.

«I corridoi umanitari – continua Piobbichi – contribuiscono a depotenziare il palcoscenico della frontiera riconducendo la questione del diritto alla protezione internazionale all’interno di un  processo pragmatico e gestibile senza quell’impatto emozionale ed emergenziale che noi vediamo continuamente. Danno a queste persone la possibilità di esercitare un diritto esigibile all’interno di un contesto di libertà».

Il sapore di quella libertà era visibile sui volti stanchi ma felici alla discesa dall’aereo e durante l’attesa del disbrigo delle pratiche burocratiche. Moez, mediatore culturale, ci traduce la frase con cui li ha accolti all’entrata in aeroporto.«Benvenuti! Ci fa piacere vedervi!». Prima del bagno di folla della conferenza stampa c’è stato il tempo di allattare i bambini più piccoli e far giocare a rubabandiera i più grandi, stanchi per la lunga attesa.

Attesa ingannata anche disegnando sugli album messi a disposizione dallo staff e sullo striscione appeso ad una delle pareti della sala, su cui anche uno dei più anziani, con la mano tremante ha voluto scrivere il nome. 

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Dopo la conferenza stampa e le interviste la seconda parte del viaggio sui pullman che li porteranno ad iniziare la nuova vita. Ma proprio in questo giorno di arrivi a Fiumicino, è stato l’Oim ad aggiornare il bilancio ufficiale stimato dei morti di migranti nel Mediterraneo, parlando di oltre cento vittime negli ultimi giorni tra Libia e Italia. Una secchiata di acqua gelida in una mattinata di festa.

Sono i due volti di una giornata intensa, nella quale le storie di chi è arrivato a Roma con un volo di linea e in condizioni di normalità, con le valigie e gli abiti buoni, si incrociano a distanza con quelle di chi su quella stessa frontiera d’acqua ha perso la vita. Secondo l’Oim 1357 persone da gennaio. 

Di questo giorno rimarranno immagini e parole, così come era accaduto per il primo arrivo di febbraio. A questo giorno ne seguiranno con ogni probabilità gli altri simili, con storie di persone in fuga da tutto, che giungono a Roma con dignità e un sorriso di sollievo sul volto. Tra queste parole quelle che si porta con sé Piobbichi, «una bambina palestinese che mi ha detto una frase che avevo sentito in un bel film degli anni ’90: ‘fino a qui tutto bene’. Ecco, l’importante è l’atterraggio e oggi sono atterrati».