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«Il pensiero teologico è sempre un dialogo»

L’8 aprile compie 90 anni Jürgen Moltmann, pastore evangelico e fra i principali teologi viventi.

Per l’occasione riprendiamo una biografia scritta dal professor Fulvio Ferrario, decano della Facoltà valdese di teologia e docente di teologia sistematica alla Facoltà valdese di teologia di Roma.

Il testo è tratto dal sito www.credereoggi.it:

Moltmann nasce nel 1926 ad Amburgo in una famiglia protestante liberale alquanto secolarizzata, nella quale, a suo dire, Lessing (1729-1781), Goethe (1749-1832) e persino Nietzsche (1844-1900) sono più letti della Bibbia. I suoi interessi culturali adolescenziali vertono soprattutto sulla fisica. Prima però di potersi iscrivere all’università viene arruolato nella Wehrmacht e nel luglio 1943 vive, come addetto a una batteria contraerea, il violento bombardamento di Amburgo. Il commilitone che gli è accanto cade ucciso, esperienza questa spesso menzionata negli scritti autobiografici della maturità e che determina riflessioni drammatiche. Dopo un’esperienza al fronte, viene fatto prigioniero nel 1945 e trascorre tre anni nei campi di concentramento alleati, prima in Belgio e poi in Scozia. Nei tre anni di prigionia nasce e si approfondisce l’interesse per la fede cristiana, naturalmente articolato intorno alle grandi domande sulla vita e la morte, la colpa individuale e collettiva, la presenza di Dio nella storia. Legge intensamente la Bibbia, dialoga con compagni di prigionia e cristiani britannici, matura una vocazione cristiana. Rientrato in Germania nel 1948, si iscrive alla facoltà di teologia di Gottinga e matura la decisione di diventare pastore evangelico, pur non avendo alle spalle l’educazione ecclesiastica e la frequentazione della chiesa allora normali tra i candidati al ministero. A Gottinga conosce Elizabeth Wendel (1926-), come lui studentessa in teologia e che diverrà sua moglie, nonché partner decisiva del suo itinerario teologico. Tra i docenti sono particolarmente importanti le figure di Otto Weber (1902-1966), discepolo di Karl Barth (1886-1968) e di Hans Joachin Iwand (1899-1960), esponente di rilievo della chiesa confessante negli anni del nazionalsocialismo. Diventato pastore, Moltmann presta servizio nella comunità di Bremen-Wasserhorst. I cinque anni di pastorato determinano l’attenzione nei confronti di quella che egli chiama «teologia del popolo», cioè delle esigenze spirituali della cosiddetta «gente comune», allora particolarmente provata dalla guerra e dalle sue conseguenze. Moltmann sottolinea spesso che la sua successiva produzione teologica rimarrà legata all’esperienza pastorale: egli non appartiene a quel tipo di teologi che intende separare la cattedra dal pulpito, il che non è senza rapporto col dato di fatto che i suoi sono tra i testi teologici più letti in assoluto in tutto il mondo. Il lavoro pastorale non gli impedisce di conseguire il dottorato in teologia e, nel 1958, egli accetta l’incarico di docente nella facoltà ecclesiastica (non appartenente, cioè, a un’università statale) riformata di Wuppertal. Qui nasce l’opera che lo renderà famoso, la Teologia della speranza: un testo audace e innovatore che, egli afferma, non avrebbe potuto essere scritto nell’ambiente accademicamente più pretenzioso delle facoltà statali. In questi anni Moltmann si confronta con la «teologia dell’Antico Testamento» di Gerhard Von Rad (1901-1971), Walther Zimmerli (1907-1983), Hans Walter Wolff (1911-1993), Hans-Joachim Kraus (1918-2000) e, naturalmente, con il pensiero di Rudolf Bultmann (1884-1976), allora dominante. Ma è soprattutto nel discepolo e critico di Bultmann, Ernst Käsemann (1906-1998), che egli trova le idee esegetiche fondamentali per la sua opera teologica. Secondo Käsemann l’apocalittica, lungi dall’essere un’escrescenza mitologica sul terreno dell’annuncio cristiano, pone la domanda teologicamente decisiva, quella della signoria di Dio in questo mondo, sottolineando così la valenza drammaticamente politica dell’escatologia. Decisivo è poi l’incontro con il pensiero di Ernst Bloch (1885-1977), mediante un’intensa lettura estiva del Principio speranza, opera che lo affascina al punto di impedirgli la contemplazione delle montagne svizzere tra le quali trascorreva la vacanza. Nel 1963 accetta una chiamata all’università di Tubinga, dove rimarrà fino al termine dell’insegnamento. Il lavoro accademico, che si condensa soprattutto nelle due opere Il Dio crocifisso (1972) e La chiesa nella forza dello Spirito (1975) è nutrito da una serie di esperienze culturali e spirituali. Menzioniamo anzitutto il dialogo tra cristiani e marxisti, nel quale viene approfondita la valenza politica della fede cristiana, tema al quale Moltmann era già in precedenza molto sensibile; in questo quadro si colloca anche l’incontro con Johann-Baptist Metz (1928-), cattolico e allievo di Karl Rahner (1904-1984): insieme a lui Moltmann elabora una «teologia politica» europea. Essa è in dialogo serrato, ma non acritico, con le teologie della liberazione latinoamericana, nera e con la teologia minju sudcoreana. Più tardi diventerà centrale anche il confronto con il femminismo, che per Moltmann comincia in famiglia. La grande simpatia del teologo nei confronti di queste esperienze di pensiero provenienti da altri contesti non gli risparmia critiche anche piuttosto aspre in quanto, gli si dice, egli, con tutto il suo progressismo, rimarrebbe un teologo accademico del mondo ricco, non inserito in quella che ci si compiace di chiamare «la concretezza della prassi di liberazione». Moltmann reagisce con compostezza, anche se a volte non senza dispiacere, semplicemente rilevando che, se nessuno può sfuggire alla propria storia, si può tuttavia fare in modo che essa si lasci interrogare criticamente. Molto importante inoltre il confronto interconfessionale, condotto anche in quanto membro della commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC). In tale ambito Moltmann incontra e approfondisce, oltre a quella cattolica, la teologia ortodossa (in particolare nella persona del rumeno Dumitru Stǎniloae [1903-1993]), che influenzerà profondamente la seconda fase della sua produzione. Importante anche il dialogo con il pensiero ebraico (Franz Rosenzweig [1886-1929], Gershom Scholem [1897-1982], Schalom Ben-Chorin [1913-1999], Pinchas Lapide [1922-1997] soprattutto), in vista dell’elaborazione di una teologia «dopo Auschwitz». Mi permetto di ribadire a questo punto un elemento già menzionato: questa molteplicità di orizzonti mutuati dalla storia (liberazione, ecumenismo, ecologia, ebraismo) può far pensare a un’affannosa e un po’ patetica rincorsa dell’attualità. Non è il caso. Certo, il rapporto di Moltmann con le sollecitazioni storiche non è consapevolmente (e polemicamente) implicito, come ad esempio quello della teologia di Barth, bensì assolutamente vistoso e ripetutamente dichiarato e tematizzato. Tuttavia l’autonomia del pensiero teologico è garantita da una competenza di altissimo livello e la sintesi di «militanza» e «scientificità» è in qualche modo lo specifico dell’autore.
Nel 1980 inizia quella che possiamo definire la seconda fase del pensiero moltmanniano. Se fino ad allora il teologo aveva svolto «l’intera teologia in un punto focale» (di volta in volta: l’escatologia, la croce, un’ecclesiologia pneumatica), ora egli proporne una «teologia in movimento, dialogo, conflitto», percorrendo alcuni punti nodali della dogmatica cristiana in quelli che egli chiama «Contributi sistematici di teologia», una serie di sei volumi dedicati rispettivamente: alla dottrina trinitaria, alla creazione, alla cristologia, alla pneumatologia, all’escatologia e al metodo teologico. Si tratta di opere al tempo stesso molto dense e assai leggibili, non destinate soltanto al pubblico degli addetti ai lavori, pur non rifuggendo dagli aspetti tecnici del lavoro teologico. L’interesse politico e quello ecumenico si arricchiscono di nuovi orizzonti, come quello ecologico, e sono organizzati intorno alla centralità del pensiero trinitario. La produzione scientifica del teologo è accompagnata da un’intesa attività di conferenziere e dall’appassionata partecipazione alle vicende del proprio tempo: dalla contestazione studentesca, durante la quale egli critica la legislazione di emergenza introdotta in Germania, alle lotte di liberazione, all’evoluzione dei rapporti Est-Ovest fino al crollo del muro di Berlino, fino, come si è detto, all’imporsi del movimento delle donne e del femminismo.

Alcuni nuclei del pensiero

La Teologia della speranza inaugura la serie di quelle che sono state chiamate, spesso polemicamente, «teologie dei genitivi» (della liberazione, della rivoluzione, delle donne, ma anche del dolore di Dio) e ne condivide l’intenzione: non si tratta di sviluppare la riflessione su un elemento specifico della fede cristiana, ma di pensare quest’ultima, nel suo insieme, a partire da un punto prospettico, naturalmente non scelto a caso, bensì tale da esprimere la centralità del messaggio evangelico in un determinato contesto storico. L’idea centrale è che «l’escatologia non dovrebbe costituire la fine, ma il principio», in grado di orientare al futuro l’intera riflessione teologica. Il nuovo di Dio non è riconducibile alle potenzialità emancipatrici dell’umanità, ma nemmeno deve essere pensato prescindendo da esse. Naturalmente la riflessione moltmanniana va inserita nel clima ottimistico dei primi anni Sessanta del XX secolo, caratterizzati dalla politica kennediana, dal dialogo Est-Ovest, dal concilio Vaticano II (1962-1965). Essa è però anche la critica di un’euforia politico-tecnica, a partire dal tema teologico dell’avvento del regno di Dio. La centralità della dimensione escatologica era già stata sottolineata, nella teologia del Novecento, soprattutto dal primo Barth e poi da R. Bultmann. In quest’ultimo, in particolare, è tuttavia clamorosamente evidente il rischio di dissolvere la storia concreta, fatta di corpi e di eventi, nella «storicità» dell’hic et nunc della «decisione» individuale (pro o contro il kerygma) che avrebbe portata escatologica. Questa è anche la critica fondamentale di Käsemann all’interpretazione bultmanniana del messaggio paolino della giustificazione. Giustificazione del peccatore significa, secondo Käsemann, che Dio sconfigge le potenze demoniache che incatenano la storia e gli esseri umani, instaurando la propria signoria, cioè lo spazio storico-cosmico della salvezza. La «speranza» di Moltmann riprende in prospettiva sistematica questa scoperta esegetica, filtrandola attraverso le categorie blochiane e la spinta utopica del neomarxismo.
Il Dio crocifisso non intende essere una semplice ripresa di un locus classico della teologia protestante, appunto la teologia della croce. Potremmo indicarne l’intenzione discutendo il titolo: si tratta di pensare la croce di Gesù come evento della storia di Dio: Dio stesso è crocifisso in Cristo. Qui Moltmann si riallaccia alla Teologia del dolore di Dio[1]del giapponese Kazoh Kitamori (1916-) e alla riflessione ebraica, ponendo alcune basi importanti per la sua successiva teologia trinitaria. A trent’anni di distanza, alcune delle tesi fondamentali che il teologo di Tubinga voleva sostenere sono diventate patrimonio comune, non da ultimo grazie al lavoro (dal punto di vista strettamente teoretico forse ancora più preciso di quello di Moltmann) dell’altro sistematico tubinghese, Eberhard Jüngel (1934-). Allora, però, esse suonavano alquanto originali e anche problematiche, come rilevava, nel 1974, un teologo certo non sospetto di convenzionale conservatorismo, e da sempre in stretto dialogo con Moltmann, come Hans Küng (1928-).
La chiesa nella forza dello Spirito è (fin dal titolo, ancora una volta) un robusto tentativo di sviluppare l’ecclesiologia nell’ambito del terzo articolo del Credo, superando la tendenza occidentale ad articolare, nei fatti, il discorso sulla chiesa in relazione preponderante, quando non esclusiva, con la cristologia. Si tratta di un’opera di amplissimo respiro ecumenico. Moltmann è un protestante riformato, ma il suo interesse per una prospettiva confessionale è assai scarso, anche se, su un tema come questo, la matrice evangelica è chiaramente avvertibile. Ancor più innovatrice è l’inclusione nella problematica ecclesiologica di tematiche come il dialogo con l’ebraismo e quello interreligioso: si tratta di elementi di riflessione in anticipo sui tempi di almeno una ventina d’anni. A mia conoscenza, la carica innovatrice dell’ecclesiologia moltmanniana non è stata superata da alcun volume apparso successivamente. Anzi, in un’epoca come la nostra, nella quale le chiese sembrano a volte tentate di reagire alla scristianizzazione della società con rigurgiti dell’ideologia di cristianità (si vedano, ad esempio, i dibattiti sulle cosiddette «radici cristiane» dell’Europa o sull’esposizione del crocifisso negli spazi pubblici) le tesi di Moltmann (non ultima la sua critica alla prassi del battesimo dei fanciulli, egemone nel cattolicesimo e nell’ortodossia, maggioritaria nel protestantesimo luterano e riformato) appaiono ancora più stimolanti.
Intitolando la serie di volumi, iniziata nel 1980, Contributi sistematici di teologia, Moltmann intende sottolineare che non si tratta di una dogmatica nel senso classico del termine, bensì di interventi dal carattere consapevolmente aperto, parziale e prospettico: anche se, si potrebbe osservare, non è affatto detto che una dogmatica debba necessariamente essere chiusa, totalizzante e falsamente a-contestuale. In realtà, anche se i volumi di Moltmann sono in linea di principio indipendenti e leggibili anche separatamente con grande profitto, l’insieme è molto compatto. Il centro di gravità è costituito dalla teologia trinitaria: oltre a essere il tema del primo volume, essa alimenta anche gli altri, valorizzando criticamente l’apporto della tradizione ortodossa. Se la teologia evangelica e cattolica degli ultimi vent’anni ha fortemente rivalutato non solo la tematica trinitaria in quanto tale ma, più profondamente, l’articolazione trinitaria di tutti i loci teologici, lo si deve anzitutto al professore tubinghese. Moltmann è molto critico nei confronti dei due maggiori approcci trinitari del XX secolo, quelli rispettivamente di Barth e Rahner: essi gli appaiono dominati da una sorta di ossessione per il primato del soggetto assoluto, che mortificherebbe la struttura «sociale» dell’essere di Dio. L’interpretazione delle persone trinitarie come «modi di essere» del soggetto divino costituirebbe una variazione sul tema occidentale del primato dell’unità di Dio, una forma di «monoteismo» che non rende conto del dato biblico circa i rapporti tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Tale limite della teologia occidentale porterebbe con sé una comprensione dello Spirito Santo esplicitamente o implicitamente determinata dal Filioque o, più precisamente, da un genere di enfasi sulla cristologia che affonderebbe le proprie origini in questo episodio effettivamente alquanto infelice della storia dei dogmi. Secondo Moltmann la vera e unica tentazione ereticale in ambito trinitario è il modalismo, cioè l’idea in base alla quale le persone divine sono modalità di manifestazione dell’unica sostanza, concepita come soggetto. Il rischio speculare, quello del cosiddetto «triteismo», sarebbe per Moltmann irreale, in quanto nessuno, nei duemila anni di storia del pensiero cristiano, l’avrebbe effettivamente sostenuto. A partire da queste considerazioni, costantemente riprese nei diversi contesti, Moltmann ripensa trinitariamente la teologia cristiana valorizzando le categorie relazionali, attraverso un pensiero che si vuole, appunto, «pericoretico»: tale cioè da privilegiare la compenetrazione reciproca di dimensioni diverse rispetto alla contrapposizione, all’alternativa, alla gerarchizzazione. Il tentativo è particolarmente evidente nella teologia della creazione e nella pneumatologia, per molti aspetti il volume più creativo della serie. Anche chi non condivida tutti gli aspetti della teologia trinitaria di Moltmann e consideri discutibile il suo giudizio su Rahner e Barth ammetterà volentieri la freschezza dell’impulso fornito da tale teologia al dibattito contemporaneo.
Quella di Moltmann vuol essere – già lo abbiamo ricordato – teologia «dopo Auschwitz», il che significa por mano con decisione a un ripensamento della storia anche teologica dell’antiebraismo cristiano e a una decisa valorizzazione del retroterra ebraico del cristianesimo il che, nei Contributi, accade in misura ancora più decisa che in precedenza. Su questo punto sono particolarmente significative la centralità della tematica del sabato nella teologia della creazione e l’impianto «messianico» della cristologia. Si potrebbe osservare che, nonostante i dialoghi condotti da Moltmann con autorevoli esponenti del pensiero ebraico, le sua teologia lascia largamente aperto il compito di ripensare il rapporto tra il monoteismo ebraico e la dottrina trinitaria cristiana.
Se fin dalla Teologia della speranza (1964) l’orientamento escatologico ha costituito un fulcro del pensiero moltmanniano, ne L’avvento di Dio (1995), tuttavia, Moltmann ha anche prodotto quella che potremmo chiamare un’«escatologia materiale»: nemmeno questo libro – egli sottolinea – è una «dottrina delle cose ultime», bensì una «dottrina della speranza», intesa però non solo come dimensione trascendentale della fede cristiana, ma vista altresì nei suoi contenuti. Per dirla in sintesi estrema: che cos’è la vita eterna? Porre con semplicità e franchezza una tale domanda non va da sé, ancor meno osare delle risposte, prova ne sia che c’è stato chi ha rimproverato a Moltmann il rischio di utilizzare ingenuamente stili di pensiero apocalittici, quasi ri-mitologizzando la fede. In realtà, Moltmann mostra in modo convincente come l’escatologia cristiana non possa fare a meno di un uso, audace e critico al tempo stesso, dell’immaginazione. Il futuro di Dio, nelle sue tre dimensioni, antropologica (risurrezione dei morti), storico-politica (regno di Dio) e cosmica (cieli nuovi e terra nuova) può essere pensato solo se viene anche coraggiosamente immaginato, vorrei dire sognato. È vero: la fede che sogna deve lasciarsi ricordare che la storia è largamente fatta di incubi; ma una fede incapace di sognare il futuro senza fine di Dio, nel quale ogni lacrima viene non solo asciugata, ma recuperata, redenta, sarà anche incapace di incidere nella storia mediante l’impegno per la liberazione.
L’ultimo volume della serie, Esperienze di pensiero teologico (1999), intende essere una riflessione sul metodo del teologare, condotta in forma di autobiografia intellettuale. È un’opera per molti aspetti unica nel suo genere, che si può anche leggere come introduzione al dibattito teologico attuale, benché, com’è ovvio, l’obiettivo sia prevalentemente puntato sul secondo Novecento. Come tutti i libri di Moltmann, anche questo è insieme appassionante e istruttivo, comunica la passione per la teologia, forma di pensiero provocatoriamente eccentrica nella cultura secolarizzata del postmoderno e proprio per questo attualissima, a dispetto delle apparenze. Non si tratta del punto finale della riflessione del nostro autore, ma certamente di una splendida sintesi dalla quale, in omaggio al principio moltmanniano secondo il quale è opportuno «cominciare dalla fine», può essere utile iniziare la lettura di questo autore.

Fonte: www.credereoggi.it

Foto: By MaeterlinckOwn work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47596265