noname

Il pane di ogni giorno, accompagnati dalla Parola della Bibbia

Martedì 22 marzo, sono le 8,50, e sto uscendo dalla metro alla Porte de Namur, quando ricevo un sms dalla mia più cara amica, che abita in Francia: «Ci sono stati attentati a Bruxelles? Va tutto bene?». Per qualche secondo, mi sento perso. In breve arrivo all’ufficio della mia chiesa, dove lavoro come diacono, e vi resterò chiuso per tutto il giorno. Da Facebook vengo a sapere che un attentato è stato compiuto nella metro, alla stazione dove scende abitualmente il mio compagno, per andare al lavoro. Per un lasso di tempo che mi pare infinito cerco di raggiungerlo telefonicamente, ma le reti sono sovraccariche. Alla fine risponde e può rassicurarmi: era in ritardo, questa mattina, e ha avuto modo di vedere le notizie prima di uscire: è a casa al sicuro, posso tirare il fiato.

È ora il momento di fare la conta di chi ci è più vicino. Chiamiamo tutti gli amici di Bruxelles che ci vengono in mente: udire una voce amata, piangere un po’, sentirsi vivi. Sapere che, presto, saranno rivelati i nomi di quelli che sono morti. Sperare. E poi rassicurare i nostri congiunti in Francia: genitori, nonni, fratelli e sorelle… A poco a poco ci rendiamo conto che è successo quel che temevamo: la nostra città, la nostra bella Bruxelles è stata vittima dei terroristi. Per alcune ore il Governo rimane prudente e restio a parlare di attentato. Ma gli abitanti di Bruxelles non sono ingenui: sapevamo che ci sarebbe stato il «nostro momento». La capitale dell’Unione europea alla fine è stata colpita.

Penso allora, rapidamente, a L’altro Dio, un libro della teologa Marion Muller-Colard. Scrive l’autrice: «Ciò che [Giobbe] ha perso di essenziale, è la sicurezza del proprio recinto» (L’Autre Dieu, La Plainte, la Menace et la Grâce, Labor et Fides, Genève, 2014, p. 51). Sono cose che possono capitare solo agli altri. Non riesco a staccarmi dalle notizie messe in circolazione senza sosta dai social network, dalla radio, dalla televisione. E comunque so che nulla sta cambiando, a parte il numero dei morti che aumenta, in maniera inesorabile.

La sera ci ritroviamo invitati da amici per una cena improvvisata: strana reazione, forse, ma le nostre rispettive famiglie sono lontane, e noi avevamo bisogno proprio di questo. Con questi amici, entrambi impegnati nella Chiesa protestante unita del Belgio, pensiamo già al domani: quali saranno le reazioni dei belgi? Che parole potremo osare? Che cosa dire alle vittime, noi, in quanto chiesa? E che dire ai musulmani? Speriamo di tutto cuore che la popolazione non cederà alle generalizzazioni, mettendo tutti i musulmani, gli immigrati, i diversi-da-noi nello stesso calderone con i terroristi.

L’indomani, mercoledì, il giorno in cui sto scrivendo, ci alziamo con una sensazione di bocca impastata. In televisione gli annunciatori sono vestiti in nero. Sono stati decretati tre giorni di lutto nazionale. Quanto a noi, stiamo per ricevere la visita degli assistenti sociali per poter accogliere un bambino in seguito a un provvedimento del giudice. Ma questo bambino, che mondo si appresta a conoscere? Potremo dirgli «andrà meglio domani» («ça ira mieux demain»), come canta la celebrità belga Annie Cordy? Povero bambino, la cui generazione scoprirà, con una acutezza superiore a quella delle altre generazioni, quanto la vita sia appesa a un filo. Su che cosa potrò basarmi per insegnargli che l’amore è più forte dell’odio e la vita più forte della morte? Su queste domande mi aspetto una risposta dalle nostre chiese.

Tre giorni dopo l’attentato sarà venerdì santo, e faremo memoria del giorno in cui il sangue dell’uomo di Nazareth è colato su Gerusalemme. E sia. Predicatori più o meno efficaci possono far risuonare l’eco di quel che è successo a Bruxelles. Ma la domenica, che dire la domenica di Pasqua? «Dove trovare il Coraggio di esistere, per riprendere il titolo più eloquente delle opere di Paul Tillich? Dove trovare il coraggio di essere, quando si è fatta l’esperienza che i nostri amuleti non sono stati in grado di proteggerci in nulla; che il sistema retributivo ha fatto difetto alla sua stessa legge e non garantisce nessuna sicurezza all’uomo religioso; che il nostro recinto aveva come unica barriera la patetica supponenza che il peggio possa capitare solo agli altri? Dove trovare il coraggio di esistere a dispetto della Minaccia?» (Muller-Colard, p. 54). La Minaccia, quelli ingenui come me l’hanno avvertita quando ne sono stati colpiti in pieno, martedì a Bruxelles.

Sfogliando il libro di Giobbe, mi ritrovo di fronte a questa domanda, che Yhwh gli rivolge: «Vuoi proprio annullare il mio giudizio? Condannare me per giustificare te stesso?» (40, 8). Sacrosanta interrogazione, quella del Dio di Giobbe, che ci invita a non scrollarci di dosso le nostre responsabilità. Un Dio che ci esorta a schiacciare ciò che vi è di empio in noi (40, 12). Allora, ci dice Dio, «anch’io ti loderò, perché la tua destra ti avrà dato la vittoria» (40, 14). Bisognerà dunque combattere il male e vivere malgrado tutto.

Quando, alla fine, ho trovato il mio compagno al telefono, gli ho chiesto che cosa avrebbe fatto per tenersi occupato tutta la giornata. – Sto per mettermi a fare il pane, mi ha risposto. Proprio così, bisogna fare il pane, bagnare i fiori, far crescere i bambini e tenersi aggrappati a questo «malgrado tutto» del Dio della Bibbia che dice «basta», che si contrappone al Leviatano e che rende nuova ogni cosa. Bisognerà attraversare con umiltà ogni nostra giornata, accompagnati dalla sua Parola, che viene a risuonare nelle nostre tombe.