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Keita e altre storie

Keita è un ragazzo che a 13 anni, durante la guerra civile in Costa d’Avorio ha visto morire i suoi genitori, restando completamente solo quando suo fratello è partito per andare in Mali. Isolato e senza punti di riferimento ha deciso di partire, non sapendo né leggere né scrivere, ed essendo privo di qualsiasi cognizione geografica e matematica tanto da avere difficoltà a contare anche i soldi per il viaggio.

Transita per molti paesi; il trafficante che doveva portarlo verso le nostre coste sbaglia rotta e finisce a Malta. Riesce poi a lasciare l’isola e ad arrivare in Italia.

La storia di Keita apre l’ultimo libro di Luca Attanasio, scrittore e giornalista, che indaga sul fenomeno dei minori non accompagnati in Italia. Si tratta de Il Bagaglio edito da Albeggi Edizioni, da poco pubblicato. Con l’autore parliamo del volume e delle ricerche svolte intorno al fenomeno dei giovani migranti che arrivano nel nostro Paese.

Com’è nata la necessità di seguire queste storie?

«La riflessione è partita da un presupposto estremamente umano e personale: ho due figli di 12 e 17 anni e tempo fa, come giornalista, ho cominciato ad avvicinarmi al fenomeno delle migrazioni di ragazzini che da soli vanno via dai propri paesi, dalle proprie famiglie, senza il conforto di un genitore, di un parente o di un adulto, al massimo di qualche loro coetaneo; proprio in età comprese tra quelle dei miei figli. Mi ha colpito molto pensare che giovani di quell’età siano in giro per il mondo da soli, in balìa di forze oscure, mafie transnazionali, trafficanti senza scrupoli, gente che se cadi nel deserto tra il Mali e l’Algeria non si ferma ad aspettarti, o che ti butta in mare per togliere peso ai barconi. È stato il motore che ha dato il via alla mia inchiesta. Così ho cominciato a girare l’Italia per intervistarli: ex ragazzini ormai maggiorenni, qualche minorenne appena arrivato, tantissimi operatori di ogni tipo che si occupano di prima e seconda accoglienza, istituzioni e forze di giustizia».

Nel corso di questa ricerca hai notato in questi ragazzi un percorso che li accomuna o ognuno ha una storia diversa?

«Ci sono grandissime differenze. C’è chi parte dall’Africa subsahariana e scappa da situazioni di gravi lesioni dei diritti umani, come in Eritrea o in Gambia; altri arrivano dall’Africa Occidentale e scappano perché la loro vita è in pericolo; altri ancora arrivano dal nord Africa, in particolare dall’Egitto, e fuggono da situazioni di grossa instabilità politica, povertà, mancanza totale di futuro. Dall’Asia minore o Asia estrema, dal Bangladesh o dall’Afghanistan, si parte perché ci sono problemi ambientali, infatti il Bangladesh è uno dei paesi che genera più ecoprofughi del mondo, un fenomeno dovuto in gran parte alle inondazioni: Dacca, la capitale, si trova alla confluenza tra il Gange e il Brahmaputra e le alluvioni arrivano anche dal mare. Inutile ricordare che l’Afghanistan è in una situazione drammatica, ho intervistato ragazzini che mi hanno raccontato scene raccapriccianti su quello che succede e di come l’unica possibilità per continuare a vivere (non per vivere un po’ meglio o per trovare lavoro) era fuggire.

A volte, purtroppo, i minori partono anche perché le famiglie li spingono a farlo, addirittura in alcuni casi li vendono ai trafficanti».

Quali diritti sono riconosciuti ai minori che arrivano in Italia e in Europa?

«Vige in tutto il mondo un principio di inespellibilità: qualora un minore venga riconosciuto tale, e spesso c’è bisogno di ricorrere a delle commissioni per questo riconoscimento perché molti di loro viaggiano senza documenti, qualsiasi Stato ha l’obbligo di garantirne l’accoglienza, la formazione, una vita dignitosa, di pensare a tutto ciò di cui ha bisogno qualsiasi minorenne in situazioni di difficoltà e di allontanamento dalla famiglia.

In questa occasione vorrei tessere le lodi di tantissime associazioni e Ong che si occupano di prima, e seconda accoglienza in condizioni di emergenza costante: per esempio nel 2014 sono arrivati 15.000 minori non accompagnati, un numero in aumento anno dopo anno per cui parlare di emergenza sembra quasi ridicolo, ma il punto è che non si riesce a ovviare al problema e si lascia la gestione dell’emergenza all’improvvisazione, e devo dire che molti operatori improvvisano in maniera egregia.

Il problema arriva al compimento del 18esimo anno di età, quando il ragazzo o la ragazza (per il 75% si tratta di ragazzi tra i 16 e i 17 anni, anche se sono in aumento quelli che arrivano tra i 7 e i 15 anni) escono dal circuito protettivo delle associazioni. Un ragazzo arrivato qui a 16 anni, usufruisce di tutto quello che prevede la legge: va a scuola, viene inserito in corsi professionali per l’inserimento lavorativo, magari trova anche un impiego, poi a 18 anni è costretto a uscire dalle case famiglia, dall’ambiente che di lui si occupava anche per il vestiario e il cibo e garantiva la possibilità di telefonare e avere i contatti con casa. Se il giovane non è velocissimo a trovare lavoro, un alloggio e sostenere le proprie spese, finisce immediatamente nei giri della clandestinità, irretiti da uomini senza scrupoli che, per esempio a Roma, alla stazione Termini, aspettano al varco chi è in difficoltà. Ma non sono solo loro a sfruttare la condizione di questi ragazzi. Ricorderete le vicende legate a mafia capitale e la truffa, architettata da alcune associazioni, volta a far passare molti ragazzi per minorenni in modo da ottenere maggiori contributi e lucrarci sopra, senza concedere nessun beneficio ai ragazzi stessi, né minorenni né maggiorenni, i quali venivano mantenuti in condizioni di accoglienza miserrima dalle associazioni italiane che avrebbero dovuto garantire i loro diritti».

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