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Cristo: l’impronta nell’arte

Se non il più trattato, Cristo è senza dubbio uno dei temi più frequenti nella storia dell’arte e il modo di trattarlo varia nel tempo in relazione all’evolversi della cultura, e mi ha quindi incuriosito il libro di Demetrio Paparoni*.

La «committenza» forniva indicazioni determinanti nei secoli del Rinascimento: forniva indicazioni certo vincolanti ma, nell’ambito della cultura di quei tempi, lasciava spazio alla fantasia dell’artista che agiva in una società sempre più laicizzata, che andava mutando le sue preferenze in funzione dei grandi movimenti religiosi come la Riforma con la sua furia iconoclasta, tesa a eliminare le opere ritenute idoli da una parte del mondo protestante. Arriva fino ai nostri giorni nostri la prassi di non usare immagini nei luoghi di culto, pur essendo scomparsa ogni animosità sul tema, diventando sempre più importante la lezione dell’illuminismo, che, imponendo l’oggettività della ragione, relegava la fede alla sfera individuale. Si afferma l’idea della bellezza come espressione del sentire, ben descritta dalla filosofia di Benedetto Croce. Chiarisce, in questo senso l’autore che «l’obiettivo non è mai stato quello di abbandonare l’idea di bellezza ma di ridefinirla (…). Che si tratti di empatia o di altro, resta il fatto che i capolavori del passato non ci attraggono per il loro contenuto ma per la capacità di scavare nella nostra psiche» e, nel XX secolo, la figura di Cristo «non ha smesso di affascinare gli artisti», che hanno creato linguaggi totalmente diversi da quelli figurativi precedenti sviluppando l’arte astratta e quella concettuale ovviamente senza eliminare il problema di esprimere il proprio sentire; inclusivo o meno della fede.

Un esempio di mutazione del linguaggio ce la fornisce Anish Kapoor: partendo da un caso come l’angelo, che si strappa le vesti di fronte alla crocifissione di Gesù, in Keriha II, compone un’opera astratta in cui gli elementi dello strappo come espressione del dolore, realizzati in un colore rosso sangue e una forma che richiama vagamente il cuore, forniscono un’immagine di potenza dirompente. Proseguendo l’autore tocca gli effetti, talvolta distruttivi, della Riforma, che non ha impedito all’arte di elaborare alcuni temi. Fra questi, la discesa dalla croce del corpo di Gesù, trattata da Simone Martini, Beato Angelico, Lippi, Perugino, van der Weyden, Rubens, Rembrandt, in cui la esigenza di rendere la rappresentazione realistica impone l’uso di espedienti che tengano conto del peso del corpo, fra i quali l’uso di un telo bianco, che diventa parte essenziale del quadro, rendendolo più aderente alla legge della gravità ma conferendo anche alla elaborazione del tema una continuità in cui gli altri espedienti pittorici richiamano l’idea di una comunità, che di riunisce attorno al Cristo.

Quanto a Rembrandt di cui si tratta la stupenda Deposizione dalla croce di Monaco, riesce difficile considerare il contrasto fra la luce che avvolge il gruppo aggrappato attorno alla croce e le tenebre che avvolgono la scena circostante come dimostrazione di persone (i credenti protestanti) che «affrontano l’esistenza aderendo ai rigidi principi del calvinismo», che conobbe interpretazioni assai rigide ma non nel caso di Rembrandt (madre cattolica e padre calvinista) che guardava a Gesù come una figura che non poteva essere oggetto di attività commerciale per il rispetto che gli si doveva come uomo e come Dio ma comunque dotato di profondissima pietas per quanti incontrava nella sua missione di salvezza. Del resto, la difficoltà di rappresentare Dio induce a tentativi sempre nuovi in cui la luce ha sempre un’importanza determinante, come in Rosso Fiorentino e in Caravaggio, dove lo sguardo di Giuseppe d’Arimatea diventa un atto di accusa all’umanità per il suo delitto e la luce diventa un elemento sempre meno realistico e più dipendente dai fini artistici.

Una fonte particolarissima dell’immagine divina in arte è la Sindone conservata a Torino. Al di là del fatto che essa sia o meno la effettiva immagine del Cristo (è stato dimostrato che non può esserlo – cfr. C. Papini: Sindone. Una sfida alla scienza e alla fede, Claudiana), essa ha affascinato molti pittori inducendoli a rappresentare con forme a lei riconducibili le sembianze del Cristo, a partire da W. A. Bouguerau nel suo L’uguaglianza di fronte alla morte in cui una sorta di angelo dalle ali nere (la morte) vola sopra un corpo immoto sconosciuto in cui è possibile ravvisare un’immagine della Pietà. Similmente (dopo le opere di J. L. David e Holbein il Giovane, Ross Bleckner cerca di cogliere il passaggio dalla vita alla morte nei malati di Aids, riferendosi alla concezione teologica cattolica secondo cui Maria, concepita senza peccato, è stata assunta in cielo anima e corpo.

Uno spazio particolare è dedicato alle icone, per le quali non è interessante chiedersi chi le ha dipinte ma se possano o meno fare miracoli. Warhol parte da loro per la sua serie dedicata a Marilyn Monroe e alla testa del Cristo stesso, avendo presente il rapporto che si instaura fra l’immagine e il suo osservatore, il che ci conduce ai monocromi di Mark Rothko, le cui matrici ebraiche «lo portano a mostrare l’assoluto attraverso superfici aniconiche e monocromatiche». Su una linea simile si muove Rauschenberg con i suoi White paintings, mentre Klein con le sue Antropometrie fa emergere l’essenza della corporeità umana con le sue immagini vagamente antropomorfe in blu, cui si avvicinano David Salle e Jasper Johns. Interpretazioni stimolanti ma molto personali.

Siamo già nella seconda metà dell’ottocento, e la figura di Cristo viene accantonata dagli artisti, anche se compare ancora per rappresentare la sofferenza umana come in J. Ensor e in Marc Chagall; oppure come alter ego dell’artista in A. Boecklin e M. Beckmann e riappare nella Sindone di Rouault e nelle affascinanti Veroniche e nello Stabat Mater di Mimmo Paladino. Altri artisti hanno affrontato il tema del Cristo da punti di vista molto diversi: fra questi il cinese Yue Minjun, la cui Deposition from the cross, priva del corpo di Cristo e di quanti operano per calarne il corpo; restano la croce e le scale a pioli appoggiate in un trionfo di dolce color rosa, azzurro del cielo e verde del prato, che al Cristo alludono, senza mostrarlo: il riferimento non è a lui ma all’uomo e allo svuotamento dei valori umani e culturali in atto.

* D. Paparoni, Cristo e l’impronta dell’arte, Milano, Skira, 2015, pp. 186, euro, 28,00.

Foto “Pietà (Perugino)” di PeruginoOpera propria. Con licenza CC BY-SA 4.0 tramite Wikimedia Commons.