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Di mamma non ce n’è una sola

Nato di donna. Riprendendo il titolo del celebre libro della femminista americana Adrienne Rich, questa, per ora, sembra essere rimasta l’unica certezza quando si parla di mettere al mondo un figlio. Adozione, inseminazione omologa ed eterologa, maternità surrogata: la donna mette al mondo, dunque. Ma la madre dov’è?

Il dibattito delle ultime settimane sull’utero in affitto, come viene definita brutalmente la disponibilità di una donna a portare avanti la gestazione di un figlio non suo, ha riportato l’attenzione sulla questione di quali limiti mettere alle nuove possibilità della scienza, divisi fra etica, diritti, norme e possibili abusi. Tutto è nato (di nuovo) da un appello lanciato da Snoq Libere, in cui, sulla scia della campagna internazionale “Stop surrogacy”, si chiede di mettere al bando la maternità surrogata: «Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione», affermano le proponenti, fra cui la regista e scrittrice valdese Cristina Comencini.

«Mi atterrisce l’idea che una donna che ha portato a termine una gravidanza “per altri”, che lo abbia fatto per denaro o per amore, non possa, alla fine del percorso, cambiare idea – sostiene per esempio Ilaria Ravarino, di Snoq Libere – Perché le conseguenze, per entrambe le parti, sono tragiche: tanto rinunciare a un bambino che si è scoperto di volere durante la gravidanza, quanto rinunciare a un bambino che si è aspettato durante la gravidanza di un’altra. Credo che una via per aiutare chi desideri avere un figlio e non può farlo esista già. Se nel nostro paese la procedura di adozione e affido fosse più snella e accessibile, e se fosse finalmente aperta anche alle coppie omosessuali, non risolveremmo certamente il problema, ma faremmo un passo avanti nella direzione di un’idea davvero moderna di genitorialità».

Una presa di posizione netta, che ha scatenato le reazioni di chi – fra questi il controappello di un’altra frangia di Se non ora quando, Snoq Factory – ritiene prioritario riconoscere innanzitutto la libertà di ogni donna di decidere che cosa fare del proprio corpo. Una donna non è un forno, si è detto. Certamente, ma allora lo stesso concetto andrebbe applicato all’aborto: se da un lato ci si scandalizza che una donna possa partorire un figlio per altri, come la si può costringere a portare avanti una gravidanza indesiderata? Diritti e desideri da un lato, possibilità di sfruttamento e abusi dall’altro. Un nodo gordiano che non è semplice sciogliere e che si porta dietro più di un’ambiguità, soprattutto se si considera che la discussione è nata in coda ad un’altra questione, la proposta della step child adoption, la possibilità di adottare il figlio del partner, contenuta nella proposta di legge Cirinnà e che ora rischia di saltare perché alcuni temono diventi un ponte per la maternità surrogata in favore di coppie gay. Al centro di tutto resta il bambino o la bambina – o forse no, forse al centro è stato messo il desiderio (alcuni parlano di diritto) di una coppia, etero o omosessuale, ad avere un figlio con i propri geni.

La gestazione per altri in Italia è comunque vietata dal 2004, quando è stata varata la legge 40 sulla fecondazione assistita che punisce «con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600 mila a un milione di euro» chiunque la «realizza, organizza o pubblicizza». Condanna ribadita dal Parlamento europeo pochi giorni fa, perché «compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce». La Corte ritiene infatti che «la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani».

Se è chiaro il no della chiesa cattolica, che cosa si muove nel mondo protestante? Abbiamo provato a chiederlo a tre donne, due teologhe e una biologa, e il risultato va decisamente in direzione di un’apertura verso le possibilità di “maternità plurima”. «Il problema in sé è certamente complesso, ma io non sono fra quelli che gridano allo scandalo – dice Letizia Tomassone, teologa femminista e pastora a Firenze – perché se da un lato non possiamo ignorare che le donne nei paesi poveri sono spinte dalla necessità a fare figli per coppie ricche occidentali, e quindi vengono sfruttate come schiave, dall’altro io penso che la maternità surrogata possa inserirsi nella categoria del dono. Fermo restando che una donna ha con il bambino durante la gravidanza un rapporto particolare e questa dimensione della relazione va preservata».

In che modo, con quali norme, va regolamentato con gli strumenti del diritto, senza dimenticare che bisogna garantire alla gestante il sostentamento e un aiuto economico equo. «Inutile irrigidirsi nell’ideologia, la vita è più complessa ed esce da schemi prefissati: ho l’impressione che vengano usate categorie ormai superate sulle relazioni fra uomini e donne e che si voglia opporsi alla complessità aperta e inquietante delle identità queer», aggiunge la pastora Tomassone. «Il fatto è che queste realtà già esistono e non vanno demonizzate, il divieto serve soltanto a spingere le persone verso un mercato selvaggio».

«Come protestanti dobbiamo sempre scegliere la via che lascia la libertà di scelta – afferma Daniela Di Carlo, pastora a Milano – non mi piace che una questione così complessa sia ridotta alla possibilità per una coppia gay di avere figli. Come nel caso dell’aborto, la maternità surrogata andrebbe regolamentata per evitare lo sfruttamento delle donne povere nei paesi sud del mondo: questo tipo di mercato va fermato nel modo più veloce. Detto questo, le donne devono poter decidere cosa fare del proprio utero: una legge che mentre sostiene di tutelarle impedisce loro di scegliere non mi piace». Ma una transazione di denaro in una questione così delicata non rischia di far diventare il bambino una merce?

«Se si fissano delle regole e le donne sono tutelate non vedo niente in contrario. Ricordo negli anni ‘80 un convegno sulla prostituzione alla facoltà valdese, organizzato dalla Fgei, in cui la posizione delle donne era: c’è chi vende l’intelletto, chi il corpo, non voglio che qualcuno decida per me. In tutte le questioni spinose che riguardano l’affettività mi pare che abbiamo agito sapientemente, rimanendo fermi sull’autodeterminazione».

«Sono assolutamente favorevole a quello che chiamerei “donazione di maternità”, perché ho letto in modo approfondito come funzionano le associazioni americane e molte testimonianze di donne che lo fanno volentieri. Queste situazioni non vanno immaginate soltanto come oggetto di abuso, esistono storie ben diverse – afferma Monica Fabbri, biologa, per dieci anni membro della Commissione bioetica della Tavola Valdese – Ricordo che a Roma qualche anno fa Paolo Ricca tenne a battesimo un bimbo nato da due papà e le due madrine erano la donatrice dell’ovulo e la donna che aveva portato avanti la gravidanza. Certo non era un’immagine di sfruttamento».

«Quando c’è stato il referendum sulla legge 40 uno dei quesiti era togliere il divieto all’eterologa, che però prese un milione di no – aggiunge Fabbri – ora la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima proprio la parte sull’eterologa e, in mancanza di una legge quadro, la questione è per ora demandata alle singole regioni. C’è stato in questi pochi anni un evidente cambiamento culturale e la mia speranza è che lo stesso accada con il dono di maternità».

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