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Il carattere inesauribile della Bibbia

«Al termine della mia vita la sola cosa che posso dire è “ No, non ho capito (…). Sono ancora un discepolo”». Lo dice non senza un pizzico della sua ironia ebraica George Steiner, forse l’ultimo campione vivente del pensiero forte del Novecento, massimo studioso di Letteratura comparata, carriera nelle più prestigiose Università del mondo. Nondimeno è una cosa curiosa. Perché la postmoderna se non è più l’età delle certezze tanto meno è l’età del dubbio. il mondo pullula di saccenti opinionisti che veicolano verità prêt à porter, di «twitteranti» del banale, dell’effimero, del nulla, la gnoseologia moderna del dubbio metodico, che aveva visto passarsi il testimone Lutero, Cartesio, Leonardo, Shakespeare, Galilei, è finita da tempo nelle scienze umane.

Nato a Parigi (1929), genitori viennesi, una vicenda umana e intellettuale nel segno del cosmopolitismo universalista ebraico, appassionato dell’assoluto, come scrive in un libro, Steiner ha ripercorso la sua vita in una conversazione-intervista con la giornalista Laure Adler*. Ragazzino in fuga con la famiglia a New York per sfuggire alla Shoah, un percorso scolastico accidentato tra Usa ed Europa, una carriera di docente viandante, Princeton, Stanford, Oxford, Ginevra, Cambridge e altrove nel mondo, il grande studioso di lingue e letterature comparate riflette sull’ebraismo, pone l’accento su quello che gli sembra il destino dell’uomo, esemplato nella storica vocazione ebraica: «Essere un ospite sulla Terra, un pellegrino degli inviti».

In un mio libro sull’arte del Novecento ho notato la vocazione esternata con parole affini da un’altra ebrea, l’americana di famiglia già tedesca, parigina per scelta Gertrude Stein, la musa di Picasso e di Hemingway: «Siamo nel mondo cittadini della patria dove nasciamo e di quella, quelle dove elezione o destino ci portano a vivere». Noto qui che è una lezione transnazionale attualissima che ci dà questa coppa di ebrei quasi omonimi, Stein-Steiner: nel «villaggio globale» del mondo di oggi. Il destino comune di «pellegrini, degli inviti», di «ospiti sulla Terra» è un dato ed è bene accettarlo, con la giusta misura di discernimento da parte di chi governa le comunità, certo, ma come opportunità da mettere a profitto.

Steiner racconta ad Adler l’esperienza di nonno amorevole di due nipotini di colore, presenta la diaspora, la cittadinanza del mondo come «misterioso» elemento di forza dell’identità culturale ebraica; non risparmia, pur nel riconoscimento di quello che chiama il «miracolo necessario» del radicamento territoriale nello Stato di Israele, quello che è il rovescio della medaglia, il rischio di snaturamento dello stile di convivenza con l’Altro, che è stato per secoli un aspetto della «aristocrazia della forza», l’humus dell’eccellenza culturale ebraica, per cui «il miracolo è pieno di amarezza». Così lo sente. La ricerca di senso – spiega Steiner – non giunge mai a compimento: «ogni lingua, ogni espressione letteraria apre un finestra su un mondo nuovo». Nella sua comprensione, nel feeling con Israele Steiner non risparmia le critiche alla rigidità, alle durezze della sua politica, rivendica con fierezza la cifra superiore dell’universalismo culturale ebraico rispetto a ogni istanza di realpolitik.

Steiner studia e compara le espressioni letterarie muovendo dal Libro – la Bibbia – ai libri. In risposta a domanda di Adler, dice di leggere la Bibbia regolarmente, dal momento che essa «è Libro di per sé inesauribile (…) contiene una tale dose di incomparabile poesia, di ironia, di enigmaticità» ma non nasconde la perplessità suscitata da libri come quello di Giosuè, «pregno di livore razzista, di odio militante». «C’è di tutto nella Bibbia», dice e, nell’affermare di non essere religioso, spiega quanti rimandi, suggestioni della Bibbia ci siano nella grande letteratura universale: il Macbeth di Shakespeare; che richiama la visita di Saul alla strega di Endor; l’ironia dei racconti di Kafka, il ciclo di Giuseppe e i suoi fratelli ibridato da Thomas Mann, tra i vari autori e le opere che cita. «Ci si dimentica fino a che punto siamo figli di questo testo, la sua importanza nella storia dell’Occidente».

È una miniera di gemme di intelligenza critica la conversazione Steiner-Adler, flash illuminanti e gustosi, come quello sul futuro incerto dei libri e della lettura: quanti ancora leggono con una matita in mano per sottolineare il testo e quanti non sanno più leggere se non con il conforto di un qualsiasi Flicker Effect (effetto di scintillamento dello schermo televisivo), protesi di una Tv accesa, di una audio o videocassetta. Gli studi umanistici possono anche rendere disumani, osserva Steiner, e questo spiega forse la sua idiosincrasia per Freud che della coscienza umana ha indagato gli abissi indicibili, per l’arte concettuale. Alla giornalista che gli domanda se non ci sia in questo una nostalgia dell’assoluto, il rimpianto di un mondo perduto, il rifiuto di capire dove vada il mondo ora, Steiner non può rispondere che sì, in sostanza. A fronte del declino che appare irredimibile della vecchia Europa, pensa che la linfa di una nuova civiltà globale possa venire dalle civiltà dell’Asia che sapranno fare migliore uso del linguaggio, delle voci: l’India più che la Cina, pensa, avendo raffrontato la cifra dei suoi studenti indiani e cinesi, «Viviamo un lungo sabato», dice da ebreo non credente mutuando il Nuovo Testamento, il tempo sospeso, vale a dire tra la morte, la notte che cala sulla terra e la risurrezione, «uno schema dal potenziale suggestivo illimitato».

* George Steiner, La passione per l’assoluto .Conversazione con Laure Adler, Milano, Garzanti, 2015, pp. 150, euro 17,00.

Foto “Shakespeare” by It may be by a painter called John Taylor who was an important member of the Painter-Stainers’ Company.[1]Official gallery link. Licensed under Public Domain via Commons.