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I boss nell’Emilia rossa

La ‘ndrangheta come sistema criminale è alla sbarra. 219 imputati per 189 capi di imputazione, un’ottantina le persone offese: si va dall’associazione a delinquere di stampo mafioso (416 bis) alle estorsioni, dalla turbativa d’asta all’usura, alla corruzione e alla scalata di società, con coinvolgimento di politici e imprenditori. Non siamo a Reggio Calabria ma a Bologna, nel cuore dell’Emilia rossa, dove lo scorso 28 ottobre si è svolta l’udienza preliminare davanti al gup Francesca Zavaglia. Si apre “Aemilia”, il più imponente processo alla ‘ndrangheta istruito nel nord Italia, a testimoniare il fatto che le cosche calabresi hanno conquistato un territorio che per molto tempo si è creduto immune dalla mafia e invece ne è talmente innervato da far parlare non tanto di infiltrazioni quanto di “colonizzazione e radicamento”. Un brusco risveglio per chi ancora si ostina a pensare che le mafie siano confinate a sud. «In Emilia Romagna il clan dei Grande Aracri, di Crotone, oggi al centro dell’inchiesta, aveva costruito da vent’anni un sistema mafioso a tutti gli effetti, in particolare nelle province di Modena, Parma e Reggio Emilia», commenta Giuseppe Baldessarro, inviato di Repubblica in aula, 29 udienze già in agenda fino a Natale. «In passato avevamo assistito a piccoli processi a Reggio Emilia e a Modena per reati meno gravi ma questa è la prima inchiesta strutturata su larga scala, qui viene fuori il sistema. Come già successo con il processo “Crimine-Infinito”, è fondamentale perché mostra le connivenze che la ‘ndrangheta è riuscita a stabilire. C’è la componente criminale e l’ala militare, le complicità della politica, dell’economia, delle istituzioni; sono coinvolti anche poliziotti e carabinieri», aggiunge Baldessarro.

Significativo che per ora si registrino poche costituzioni di parte civile: «A fronte di 80 persone fisiche, se ne sono presentate soltanto quattro, una delle quali è una giornalista. Se questa è una prassi consolidata nel sud, mi aspettavo qualcosa di diverso in Emilia Romagna, ma è evidente che anche quindi la mafia fa paura», commenta Baldessarro.

I nomi sono quelli di ‘ndranghetisti di primo livello: il boss Nicolino Grande Aracri detto “Manuzza”, condannato a 30 anni in secondo grado dalla Corte d’assise di Catanzaro lo scorso luglio, operava in accordo con le famiglie di San Luca, nella Locride, e di Reggio Calabria. «Nicolino Grande Aracri è un pezzo di storia della criminalità calabrese, sotto inchiesta anche in un altro processo, ed è evidente che si è potuto muovere al nord perché aveva il placet delle altre famiglie mafiose. Il suo potere è diventato ancora più importante dopo lo scontro avuto con altri rivali sul suo territorio, la seconda generazione di ‘ndranghetisti che si stava facendo largo in maniera imponente. Nicolino come capomafia voleva fare di Crotone una “provincia” di ‘ndrangheta, quindi avere una sorta di riconoscimento del suo status. Stiamo parlando di un clan che stava crescendo in maniera molto rapida», spiega Baldessarro, e aggiunge: «dalle intercettazioni si evince che i Grande Aracri avevano anche agganci in Vaticano e la capacità di arrivare a magistrati per aggiustare i processi in Cassazione».

Proprio negli stessi giorni in cui si inaugura il processo, Bologna ha visto la nomina di un nuovo arcivescovo, Matteo Maria Zuppi: «è un sacerdote vicino alle persone, abituato a lavorare con gli ultimi – dice Baldessarro – Vedremo che posizioni prenderà la chiesa, in città è un’istituzione molto radicata ed è importante che venga sostenuta in ogni modo l’azione dell’antimafia».

Nel 2015, per il secondo anno le chiese metodiste e valdesi italiane hanno celebrato la Giornata della legalità, istituita nel 2009 dalle chiese del sud Italia, e poi estesa a tutte nel 2014. Questa sensibilità influenza la percezione del fenomeno mafioso nella comunità protestante della città: «credo che il cambiamento di prospettiva che abbiamo verificato a livello della società civile sia lo stesso che si verifica al livello delle chiese – dice Michel Charbonnier, pastore della chiesa metodista di Bologna e Modena – in maniera a volte scioccante e più rapida di come si vorrebbe, le chiese, come le città del nord Italia, scoprono tragicamente che la questione legata alle mafie non riguarda soltanto il sud. Ce lo siamo detti da decenni, ma trovare il maxiprocesso fuori dalla porta di casa è tutta un’altra cosa. Daremo sicuramente spazio alla riflessione nelle comunità: forse per questo tema sarà più facile, visto che l’assessore alla legalità della Regione Emilia Romagna Massimo Mezzetti è membro della nostra chiesa, e speriamo che questa connessione porti dei frutti positivi». E’ un fatto che la città di Bologna debba ancora abituarsi a questo avvenimento, anche per via della propria identità politica: secondo Charbonnier «la città sta ancora prendendo le misure di una presenza di questo genere, mi sembra che ci sia una sensazione “agrodolce”: da una parte c’è la risposta positiva di comuni, associazioni e istituzioni che si vogliono costituire parte civile come per dire che l’infiltrazione mafiosa non passa da qui; dall’altra un po’ di disillusione rispetto alla Bologna del senso civico e dell’impegno sociale, che è costretta a vedere il fenomeno mafioso anche qui. Il risultato è un po’ una miscela isterica, da una parte il tentativo di ritrovare la propria identità storica, dall’altro la confusione politica attuale. Sui giornali ci sono due “maxi” in questi giorni per Bologna: il processo di cui parliamo e il giro di vite sulla gestione delle occupazioni dei locali sfitti. Un grosso colpo per una città che ha fatto della collaborazione con l’associazionismo o i centri sociali un fiore all’occhiello». 

Foto via Pixabay