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Lì dove non c’è futuro

In estate il lungomare della città libanese di Saida, che abbiamo imparato a conoscere nei libri di storia come l’antica città fenicia di Sidone, è pieno di turisti che passeggiano lungo le strade e popolano i numerosi locali e le pasticcerie del centro, in un’area che va dal Castello del Mare, che si affaccia sulla città vecchia, fino allo stadio cittadino, costruito praticamente sul mare a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila.

Eppure, è sufficiente percorrere 250 metri verso l’interno per ritrovarsi di fronte a un inferno: un accampamento di profughi siriani all’interno di un grande palazzo di cemento mai terminato e mai collegato ad alcuna rete di servizi.

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«Arriviamo tutti da un villaggio vicino a Hama, in Siria. Lì non c’è più nessuno», racconta Ahmed, che nel suo paese d’origine era preside dell’istituto scolastico locale e che in questo luogo sta cercando di mantenere in piedi un servizio educativo di base, come se fosse uno strumento per rimanere aggrappati a una parvenza di normalità. Ma in questo cubo di cemento non c’è nulla di normale, nulla che faccia pensare al futuro.

«Non è possibile che esseri umani vivano in questa condizione di totale abbandono strutturale nell’indifferenza istituzionale generalizzata», dice il professor Aldo Morrone, uno tra i più importanti dermatologi italiani e presidente dell’Istituto Mediterraneo di Ematologia. «Sono condizioni che non sono dignitose nemmeno per gli esseri animali, a maggior ragione per gli esseri umani, e causano grande tristezza e grande dolore».

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Ad accoglierci all’ingresso di questo rifugio improvvisato, ma che ormai esiste da anni, un lago di acqua e fango, usata per cercare di sciacquare via i residui di rifiuti e sporcizia che rendono questo luogo una vera e propria fogna, che non si può definire neppure “a cielo aperto” vista la sua struttura così simile a quella di un carcere. Residui che una volta ricoperti d’acqua si infiltrano dappertutto, trasformando un gesto di grande ospitalità come quello di lavare le scale del palazzo per accogliere dei visitatori in una sensazione di ulteriore malessere, rafforzata da un odore difficile da descrivere in poche parole.

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Tarek, l’operatore sociale che ci ha portato in questo luogo che non esiste in nessuna documentazione ufficiale, ci racconta che nella struttura hanno trovato rifugio 180 famiglie, e che dall’inizio della crisi qui sono nati 500 bambine e bambini, portando il totale delle persone inghiottite in questi corridoi umidi a una cifra compresa tra 1.500 e 1.800.

Inizialmente il proprietario del terreno e della struttura, che sorge accanto a una moschea in costruzione e a un prestigioso ospedale privato di proprietà turca, aveva concesso queste mura a titolo gratuito, ma l’aggravarsi e il protrarsi della crisi siriana ha creato nel tempo una condizione di tensione permanente tra gli abitanti libanesi e i rifugiati siriani che nello specifico ha portato a chiedere un affitto di 1.700 dollari al giorno, pari a poco meno di 300 dollari al mese per ogni nucleo familiare. Un costo sostenibile per una famiglia in condizioni normali, inconcepibile per questi profughi, che in Libano come in molti altri paesi non possono accedere a nessun tipo di lavoro regolare e devono affidarsi a sporadiche prestazioni lavorative in nero, magari nei campi della valle della Bekaa, al confine con la Siria.

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Oltre ai numeri, che forniscono la dimensione del dramma ma non possono raccontarne l’intensità, è la moltitudine di donne incinta e di bambini a colpire: persone che sono normalmente un simbolo di futuro perdono questa connotazione e, spostate in un contesto come questo, diventano altro.

«Ritrovare segni di speranza e futuro in una situazione del genere è difficile», racconta ancora Morrone. «Le donne incinta che ho visto avevano paura di dare alla luce altri bambini malati; certamente non si può parlare di prevenzione o di attenzione alla salute materna e infantile, ma emerge comunque una sensazione di resistenza dalla quale dobbiamo ripartire per avere un po’ di speranza e di futuro».

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In luoghi come questi, in cui c’è bisogno di tutto, è forse l’emergenza sanitaria e igienica quella maggiormente pressante: la mancanza di fogne, acqua potabile e alimenti, infatti, rendono queste persone tragicamente esposte a nuove epidemie. «Non è un problema di farmaci – spiega il professor Aldo Morrone – paradossalmente nelle stanzette si vedevano più medicine che cibo e acqua potabile. Ho avuto il privilegio di toccare con mano queste persone, di visitarle, e ho visto la loro capacità di aprire il loro cuore e anche il loro corpo a un medico che probabilmente non avevano mai visto prima, e di cui però sentivano di potersi fidare. Le sensazioni sono quelle del recupero di corpi abbandonati, di persone che perdono frammenti della loro vita. Non per niente c’erano bambine che erano state colpite da frammenti di bombe, per cui frammenti del loro corpo erano scomparsi ed erano stati sostituiti da cicatrici indelebili e drammatiche».

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Storie come queste vanno raccontate ma bisogna anche a interrogarsi su quali strade seguire per risolverle. Mentre le soluzioni individuali possono essere molte, perché il singolo malato può essere portato via, curato in altri modi, a livello sociale l’unica strada percorribile per non condannare all’oblio un luogo come questo è un lavoro lavoro di gruppo, in grado di coinvolgere le autorità sanitarie locali, il sindaco, le associazioni di volontariato, istituzioni locali e internazionali che facciano una programmazione di come si possa uscire da questa situazione. «Non si possono far vivere le persone come topi in una fogna», conclude Morrone.

Quasi duemila persone sono in attesa del quarto inverno in uno spazio che ufficialmente non esiste e dal quale potrebbero essere allontanate verso altri luoghi privi di speranza, alimentando un sistema che toglie umanità alle persone, le trascina giorno dopo giorno in una dimensione, mentale e fisica insieme, dalla quale è sempre più difficile emergere.

Foto Marco Magnano/Radio Beckwith Evangelica