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La lotta dei kurdi è per l’umanità

La resistenza di Kobane e l’avanzata dell’Isis, le contraddizioni della Nato e l’ambiguità del governo turco sono alcuni dei temi caldi che interessano la zona del Kurdistan. Senza dimenticare il ruolo giocato dal petrolio, dall’acqua e dall’energia contese di fronte al progetto curdo di un’autonomia democratica. Ne parliamo con Ozlem Tanrikulu, presidente dell’Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia.

In qualche modo l’apparizione dell’Isis, a cui la Resistenza curda ha saputo opporsi adeguatamente, è legata ad alcune delle Primavere Arabe sorte intorno al 2010. Quello che venne descritto come un «risorgimento» della società civile ha subito una innegabile involuzione.

«Le Primavere Arabe, in generale, erano rivolte popolari: autentici simboli della ricerca di libertà, democrazia e giustizia dei popoli. I leader di tali movimenti, però, non avevano un obiettivo comune, né un progetto concreto per il futuro. Guardavano a tali rivolte solo come uno strumento per ottenere un cambio di potere. Ciò ha messo in discussione anche l’appoggio popolare: quando il popolo si è reso conto della situazione, si è tirato indietro. Un altro aspetto da considerare è la violenza: quando è entrata in gioco, tutto è cambiato, perché sia i regimi dittatoriali che altri stati coinvolti hanno cercato di usarla a proprio favore. I kurdi, al contrario, hanno sempre avuto un progetto: per questo non hanno mai perso l’appoggio popolare».

Apparivano invece di maggior incisività (laiche, progressiste, autonome) le sollevazioni che hanno interessato la Turchia negli ultime due anni e in cui era consistente la presenza dei kurdi. Come valuta le prospettive di tali movimenti, anche tenendo conto dei recenti risultati elettorali?

«Le rivolte in Turchia sono una risposta all’assenza di un sistema democratico. La Turchia ancora sostiene e difende l’omogeneità dello stato-nazione, considerando tutti gli altri gruppi, popoli e credi come nemici. Principalmente l’atteggiamento della Turchia verso i kurdi è caratterizzato dalla tendenza a negare, annientare ed assimilare. Se lo stato turco continuerà a tenere un approccio antidemocratico e militare su ogni questione, tali rivolte continueranno, anche con possibilità di successo. Il progetto dell’Hdp rappresenta l’alternativa al regime antidemocratico presente in Turchia. Nelle elezioni del 7 giugno l’Hdp ha avuto un grande successo: e crediamo che continuerà a crescere, perché si tratta di un progetto di pace, basato su democrazia, collaborazione, convivenza e diritti delle donne».

La resistenza di Kobane ha sicuramente rappresentato un punto di riferimento estremamente positivo per larga parte dell’opinione pubblica democratica europea. Purtroppo la stessa stampa occidentale, che aveva solidarizzato con voi, non sembra scandalizzarsi più di tanto per i recenti raid turchi sui campi profughi e sui villaggi di kurdi. Come giudicate questa ambiguità?

«Certo, si tratta di una contraddizione: tale ambiguità è negativa. La Nato ha un ruolo e lo sta giocando. La Turchia utilizza i meccanismi della Nato e dei suoi alleati contro di loro: in tal modo li spinge a rimanere in silenzio, affermando che si tratta di una questione interna, di una guerra contro il terrorismo. In realtà non si tratta di terrorismo, ma di una vera e propria guerra, e tutti dovrebbero muoversi nel rispetto della Convenzione di Ginevra. Stati Uniti e Unione Europea dovrebbero fermare questi comportamenti della Turchia, far sentire la propria voce; anche perché dovrebbero riconoscere che i kurdi sono parte della guerra contro l’Isis e che tutti gli attacchi contro i kurdi facilitano solo l’avanzata dello Stato islamico. La contraddizione di base è chiara: se Isis è un nemico comune, perché non viene fermata la Turchia quando attacca proprio quei kurdi che hanno lottato e continuano a lottare contro Isis?».

Il processo di pace avviato due anni fa su indicazione di Ocalan sembra essere naufragato a causa della politica del governo turco dell’Akp. Esiste ancora una concreta possibilità di riprendere le trattative tra organizzazioni curde e governo turco per una soluzione politica del conflitto?

«Le questioni non si risolvono con la guerra, ma con la democrazia: né il Pkk né la Turchia possono risolvere la questione con la guerra, l’unica strada è la pace, il dialogo, l’alleanza. Entrambe le parti sono consapevoli di questo; se si vuol riprendere il processo di pace, esso dovrebbe essere condotto secondo le convenzioni internazionali. Ogni guerra ha anche la sua pace; per costruire la pace c’è bisogno delle due parti. Quindi è necessario un cessato il fuoco bilaterale; per garantire l’imparzialità di questo processo ci dev’essere una terza parte. Durante i negoziati, i rappresentanti sia del Pkk che dello stato turco devono avere gli stessi diritti».

La resistenza curda nei territori curdi amministrati dallo stato turco aveva deposto le armi per favorire il processo di pace ed ora ha reagito agli attacchi dell’esercito turco. È solo legittima difesa o si preannuncia una intensificazione della guerriglia?

«Nelle ultime dichiarazioni uscite anche sulla stampa, il Pkk afferma chiaramente: la Turchia ha cominciato questa guerra e stiamo solo mettendo in pratica il nostro diritto di autodifesa. In precedenza più volte il Pkk aveva dichiarato che l’Akp stava utilizzando la tattica della provocazione, per far ricominciare la guerra, e che i kurdi non intendevano cedere alle provocazioni e mantenevano una posizione di autodifesa».

Cosa vi aspettate dall’Unione Europea che finora sembra alquanto tiepida nei confronti degli attacchi turchi? E dagli Stati Uniti?

«Stati Uniti e Unione Europea dovrebbero comportarsi secondo i propri principi, cioè agire per la democrazia e la stabilità, obbligando la Turchia a sedersi al tavolo della pace. È molto importante che il Pkk venga rimosso dalla lista delle organizzazioni terroristiche; è la condizione principale per permettere che si facciano passi verso la pace e per risolvere le questioni in maniera veloce. La questione principale in Turchia è la questione kurda; Unione Europea e Stati Uniti dovrebbero sapere che la soluzione della questione kurda è anche un loro interesse; per questo devono forzare la Turchia a cooperare per conseguire la pace».

In che cosa consiste il progetto di autogestione che interessa un sempre maggior numero di città e villaggi curdi?

«I kurdi vogliono che venga riconosciuta la loro volontà, vogliono poter scegliere i propri amministratori e rappresentanti locali, vogliono autogovernarsi; stanno cercando di creare un sistema in cui si possano autogovernare dal basso, rimanendo comunque in contatto con il governo centrale. Danno importanza alla convivenza con gli altri popoli che vivono in Turchia, purché sia riconosciuta e rispettata la loro volontà,dal punto di vista politico, culturale, sociale e legislativo».

Un modello di autonomia come quelli del Südtirol e delle Vascongadas potrebbe rappresentare una soluzione per il conflitto tra popolo curdo e stato turco? La Turchia è pronta per una tale evoluzione?

«I kurdi vogliono l’Autonomia Democratica: vogliono prendere le proprie decisioni nelle loro regioni, non vogliono essere gestiti da Ankara, vogliono gestire direttamente dal basso le questioni che riguardano loro e i loro territori. Questa proposta non vale solo per i kurdi, ma per tutte le città e tutti i popoli della Turchia. Però, per arrivare a questo punto, è necessaria una democratizzazione della Turchia: attraverso una nuova costituzione, che tuteli l’uguaglianza dei diritti e la possibilità di un’amministrazione dal basso».

La Turchia sembra essere ben inserita nel gioco della politica energetica. Ha firmato accordi con l’Europa, la Russia, l’Azerbaigian, la Georgia, l’Iraq e in passato anche con l’Iran, praticamente con tutti, se si esclude l’Armenia. Questo quanto influisce nelle scelte politiche e militari dei governi turchi?

«Tutta l’energia della Turchia viene dal Kurdistan o arriva in Turchia attraverso il Kurdistan. La Turchia, se accetterà di vivere in pace con i kurdi, avrà un ruolo; per avere il gas, il petrolio e l’acqua dei kurdi è necessaria la pace».

La concessione della base di Incirlik all’aviazione statunitense potrebbe essere stata una mossa di Ankara per fingere di partecipare alla guerra contro l’Isis mentre in realtà fornisce una copertura per riprendere la guerra contro i kurdi?

«Si sa che gli Stati Uniti hanno bisogno della Turchia, però non dimentichiamo che la Turchia da anni sostiene i jihadisti, in particolare Isis, che rappresenta un nemico del mondo intero e degli Stati Uniti. Perciò gli Stati Uniti devono opporsi agli attacchi della Turchia contro i kurdi: in quanto il Pkk lotta contro Isis. Gli Stati Uniti non portano avanti una politica chiara nei confronti dei kurdi; ma se vogliono avere un ruolo in Medio Oriente, avranno bisogno dei kurdi, i cui valori sono secolarismo, democrazia, convivenza pacifica e libertà delle donne».

Come giudica la posizione assunta da Barzani, che ha richiesto ai militanti del Pkk di lasciare i territori curdi all’interno dei confini iracheni.

«La dichiarazione di Barzani è un grave errore, da parte sua: il Pkk è un movimento kurdo, fa parte del Kurdistan, e dire al Pkk di uscire dal proprio territorio non è una mossa politica ragionevole, non aiuta a raggiungere una soluzione della questione kurda. I kurdi, al contrario, dovrebbero riunirsi in un Congresso Nazionale, al fine di trovare una strategia condivisa. Quelli che attaccano i kurdi, senza fare distinzioni, attaccano in sostanza ogni movimento e l’intera popolazione».

Foto: Mardin, Kurdistan turco. Stefano Stranges