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Tra Islam e realtà

L’Islam, o gli Islam, formano un corpus culturale che si estende per buona parte del globo. Nonostante ciò e nonostante i contatti tra le diverse culture siano sempre più favoriti dalla facilità di accesso ai media e alla comunicazione, l’ignoranza intorno alla cultura islamica è vasta. Oltre ai libri e al contatto diretto con altre realtà, un modo per accedere alla sapienza, alla cultura e alla storia di un popolo è quello di partire dall’arte. La mostra “Arte della Civiltà Islamica. La Collezione al-Sabah, Kuwait”, inaugurata presso le Scuderie del Quirinale a Roma, potrebbe essere l’occasione per superare diverse barriere, per prima quella dell’ignoranza. Ne parliamo con Giovanni Curatola, orientalista e curatore della mostra.

Qual è la storia di questa collezione?

«La storia è quella dei due collezionisti, che sono Sheikh Nasser Sabah al-Ahmad al-Sabah e sua moglie Sheikha Hussah Sabah al-Salim al-Sabah, che nel Kuwait degli anni Settanta hanno iniziato a scoprire e ad accorgersi dell’arte islamica, ad appassionarsi allo studio, alla ricerca e all’acquisizione di opere d’arte. Potendo partire da una posizione economica privilegiata, hanno investito tempo, passione e denaro nell’acquisto di opere di arte islamica. Decisero poi di mettere questa collezione, sparsa tra le loro diverse abitazioni, in particolare nella loro casa a Kuwait City, a disposizione del paese facendo un prestito permanente alla stato del Kuwait, rendendola pubblica e facendo costruire un’ala nel museo nazionale per ospitare questa straordinaria raccolta. La tappa successiva è stata l’invasione, nel 1990, da parte dell’Iraq, con la conseguente dispersione della collezione, che, trasportata a Baghdad, ha subito alcuni danneggiamenti; dopo la fine della guerra è tornata a Kuwait City, dove ancora oggi si trova. Nel frattempo è aumentata di consistenza in maniera straordinaria: oggi conta circa 35.000 opere».

Come è stato pensato il percorso espositivo?

«La mostra è pensata per paesi e luoghi dove non c’è una grande conoscenza dell’arte islamica, dove sostanzialmente è abbastanza ignorata. Si è pensato di compiere un percorso cronologico: l’Islam, gli Islam, sono variegati, hanno una storia di 1400 anni e la dominazione islamica si è estesa in Spagna, Sicilia, Nord Africa, Turchia, Siria, Egitto, Asia Centrale, nel subcontinente indiano e fino alla Cina. Sono mondi molto vasti, per cui dovevamo cercare una sintesi che tenesse presente sia la cronologia, sia che mettesse in evidenza questa disparità di provenienza. Sono mondi lontani ma accomunati dalla comune fede e dall’espressione artistica di questa fede».

Quali sono gli elementi che emergono dall’arte che maggiormente rappresentano la cultura o le culture islamiche, come può essere per esempio l’estrema raffinatezza della calligrafia?

«Non c’è dubbio che la calligrafia sia l’iconografia ultima dell’Islam, quella che la caratterizza meglio, che in qualche maniera la rappresenta più compiutamente. Questo ha a che fare con il luogo in cui nasce l’esperienza islamica, ovvero la penisola sudarabica dove una tradizione di scrittura era già presente. L’Islam non si accontenta della tradizione orale: c’è una dicotomia tra il Corano, che vuol dire recitazione, e l’importanza della scrittura. Il primo brano rivelato del Corano dice qualcosa che ha a che fare con l’insegnamento di Dio all’uomo sull’uso del calamo, della penna e della scrittura, che è proprio uno dei temi principali. Un tema che viene anche canonizzato intorno al X secolo da grandi calligrafi che danno regole precise, matematiche, geometriche. Non c’è niente di casuale, è un microcosmo che riprende il macrocosmo con tutta la simbologia delle 28 lettere dell’alfabeto in tutte le tradizioni monoteistiche, semitiche, nella kabala e nell’abjad che è la la numerologia del mondo islamico. Tutto questo ha a che fare con la calligrafia che si ritrova quasi dappertutto nell’arte islamica».

Lei ha già curato altre mostre di arte islamica: secondo la sua esperienza, da cosa sono colpiti maggiormente i visitatori?

«Sono colpiti dalla varietà di forme e di espressioni. Molti arrivano con dei pregiudizi e ne escono con qualcuno in meno. Per esempio, quello relativo all’iconoclastia e la rappresentazione dell’immagine che mai è stata proibita esplicitamente nel mondo islamico. Questo ha a che fare con il dettato profetico della non idolatria, dell’origine pagana che ha anche l’Islam. Un’altra cosa che colpisce è l’estrema raffinatezza e qualità dell’arte islamica: questa rarefazione e la semplicità delle forme nei materiali o, in un’altra tendenza, la presenza di un horror vacui e la necessità che la superficie sia completamente coperta. È notevole il virtuosismo degli artisti e degli artigiani che sono tecnicamente superlativi».

Ci sono dei pregiudizi che vengono superati anche legati al rapporto tra uomo e donna?

«Quello fra uomo e donna è un rapporto complesso che anche il Corano stabilisce in determinati modi. È una complessità che ha a che fare con tutte le grandi religioni, nessuna esclusa. Credo che una certa misoginia ci sia nel cristianesimo, nell’ebraismo, nel mondo musulmano, nel mondo cinese. Per esempio, io non ho mai sentito dire che un Dalai Lama si sia reincarnato in una donna. Al di là del rapporto uomo donna, farei notare che le figure femminili, nelle rappresentazioni coraniche o nelle miniature, non sono mai velate. L’unica figura velata, da un certo periodo in poi, dal 1500 circa a seguire, è quella del profeta Maometto che è l’esemplare più virile di tutta la storia musulmana».

Non possiamo pensare all’arte del Medio Oriente senza legarla alla cronaca e alla devastazione della guerra. Sentiamo di opere d’arte e siti archeologici distrutti o in pericolo, ma la campagna strumentale che spesso i media fanno sulle vicende legate a questa guerra o allo Stato islamico, non credo ci permettano di capire cosa stia veramente accadendo. Che riflessione possiamo fare su quanto siano veramente in pericolo i luoghi dell’arte in Medio Oriente e su come difendersi dalla strumentalizzazione dei media?

«Quanto siano veramente in pericolo è difficile da stabilire, perché a me la situazione appare molto giocata su una provocazione, quasi che questi personaggi volessero confermare tutti i pregiudizi che l’occidente ha su di loro: sanguinari, incolti, privi di ogni storia. L’occidente ha colpevolmente ignorato molti segnali che arrivavano dal Medio Oriente nei decenni passati. La difesa è l’educazione. Educazione che non deve essere soltanto nostra ma anche loro. Ho avuto modo di insegnare l’anno scorso a dei corsi estivi all’università americana del Kuwait e mi sono reso conto che la conoscenza di molti del Corano e dell’Islam è assolutamente superficiale, come anche è molto superficiale la conoscenza che abbiamo noi della nostra cultura religiosa. Quando faccio lezione ai miei studenti se cito delle questioni bibliche o i vangeli molto spesso riscontro con raccapriccio del vuoto nello sguardo. Non sto assolutamente dicendo che si debba avere solo un’educazione religiosa: dovremmo insegnare storia delle religioni nelle scuole, storia delle culture e delle civiltà. Con la conoscenza e con l’educazione, che richiede un processo lungo e non si può esaurire in poco tempo, si può arrivare alla comprensione e quindi anche all’accettazione nella diversità. Perché le diversità esistono e vanno salvaguardate, però dobbiamo cominciare a conoscere gli altri».

Ascolta l’intervista su Radio Beckwith

Copertina: “Roof hafez tomb” by PentoceloOwn work. Licensed under CC BY 3.0 via Wikimedia Commons.