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La tragedia greca del neoliberismo

Ci voleva la foto di un pensionato greco, prostrato dalla disperazione per l’impossibilità di ritirare la propria (pur modesta) pensione, per dare al mondo intero la dimensione umana della catastrofe economica greca, dopo mesi di discussioni mediatiche fatte di numeri e slogan ideologici. E sono stati gli occhi disperati di un anziano a far capire al mondo intero che cosa significhi, in termini umani, avere (come la Grecia nel 2015) un sistema finanziario al collasso, un tasso di disoccupazione al 24,8% e vivere in una società in cui i giovani tra i 15 e i 29 anni che non hanno un lavoro e non studiano sono più della metà della forza lavoro… Eppure, dalla Thatcher e da Reagan in poi, in tanti decenni di pensiero neoliberista imperante, tutti i principali media continuavano a decantare i vari benefici effetti che avrebbe portato la globalizzazione, ma che occorreva liberarsi delle vecchie idee, fare le cosiddette “riforme” che generano “flessibilità” sul mercato del lavoro, perché solo prezzi e salari perfettamente flessibili potevano garantire l’efficienza di un’economia moderna…

Come sappiamo, la Grecia è già di fatto in “default” da parecchi mesi. In passato, situazioni simili sono già state sperimentate da vari Paesi e la situazione è sempre stata gestita in modo “negoziale”. Questo significa che la soluzione non è prevedibile a priori, ma è l’esito di una trattativa. Se, in passato, negli Anni ’50 gli alleati decisero di condonare gran parte del debito di guerra all’allora Germania Ovest e nel 1990, ai tempi dell’unificazione tedesca, fu consentito al cancelliere Kohl di fissare (in modo molto demagogico) un tasso di cambio 1 a 1 tra marco dell’Ovest e marco dell’Est (con effetti successivi che causarono allora il crollo del Sistema Monetario Europeo) il clima attuale di politica economica è molto cambiato. Da un lato, i fautori del rigore (non solo i tedeschi, ma anche i polacchi, i finlandesi e molti altri Paesi dell’UE) sono contrari a politiche economiche accomodanti perché temono di “creare un precedente” che incoraggi molti Paesi a governare il debito pubblico in modo opportunistico e demagogico, dall’altro il problema era quello di evitare un default dello stato greco che, oltre ad avere effetti disastrosi e terribili per i cittadini, avrebbe avuto pesanti ripercussioni geopolitiche (la Grecia avrebbe potuto avvicinarsi alla Russia e allontanarsi dall’Europa per cercare finanziamenti e questo, come si è visto, ha preoccupato non poco Obama) e, a dispetto di quanto affermato in modo propagandistico dal presidente del Consiglio italiano, avrebbe generato una preoccupante instabilità finanziaria in Europa, a causa dell’ingente quantità di titoli pubblici greci detenuti da banche italiane, tedesche ed europee. Tuttavia, dopo che i precedenti governi greci (sia quello di centrodestra, di Nea Demokratia, che quello di centrosinistra, del Pasok, quelli che sono ben visti dal Fondo Monetario e da Juncker) avevano falsificato i bilanci pubblici, per cercare di nascondere la reale dimensione del debito greco e dopo che la Grecia con il Pil al 25%, ha licenziato parecchie migliaia di dipendenti pubblici, ha tagliato del 30% gli stipendi pubblici in molti settori, ha tagliato le pensioni, ha alzato le tasse, nessuno può seriamente accusare Tsipras di opportunismo, se sta semplicemente cercando di risparmiare ulteriori sofferenze al proprio popolo, già prostrato dalla disperazione e dai sacrifici. A fine giugno, in vari momenti, l’accordo sul debito greco sembrava molto vicino. Non si trattava di non pagare il debito, ma di rendere il debitore solvibile, commisurando i sacrifici della restituzione del debito alla crescita del Pil. Le misure di finanza pubblica proposte da Tsipras erano ragionevoli e prevedevano prelievi fiscali (soprattutto sui grandi patrimoni e sui redditi molto alti), aumenti significativi delle imposte indirette e importanti iniziative di lotta all’evasione fiscale. Eppure, proprio in quel momento, quando la soluzione alla crisi sembrava vicinissima (anche a detta di molti leader europei), il Fondo Monetario e i “falchi” della Commissione Europea hanno sollevato molte opposizioni su dettagli tecnici e sulle modalità di prelievo fiscale da parte del governo greco. Non erano gradite le imposte sui grandi patrimoni e sui soggetti ad alto reddito… Per comprendere meglio la situazione occorre capire che gran parte dell’opinione pubblica tedesca e del Nord Europa non vede di buon occhio i governi dei Paesi latini e mediterranei (non a caso l’acronimo “PIGS”, coniato con riferimento a Portogallo, Italia, Spagna e Grecia) e il governo Merkel (così come gli altri governi conservatori del Centro e Nord Europa) sarebbero stati premiati dal loro elettorato in caso di uscita della Grecia dall’Euro e dall’UE. Negli ultimi giorni di giugno a molti osservatori è sembrato che l’obiettivo tattico dei “falchi” europei e del Fondo Monetario fosse quello di accettare il rischio calcolato di un “default temporaneo” della Grecia, per causare la caduta del Governo Tsipras e negoziare la soluzione del default greco con un “governo amico” (che, per inciso, avrebbe incluso i partiti responsabili, in passato, della falsificazione del bilancio dello stato greco). In quel preciso momento, Tsipras ha deciso di giocare la carta del referendum. L’esito era incerto: poteva uscire di scena con dignità, senza sostanzialmente venir meno alle proprie promesse elettorali, oppure, vincendo il referendum, avrebbe potuto eliminare la possibilità, per la troika, di negoziare la crisi debitoria con partiti politici greci più conservatori e di impostazione neoliberista. Ma, agli occhi del popolo greco, non poteva essere credibile chi, come Junker, guidava il Lussemburgo quando era un paradiso fiscale, o chi, come il Fondo Monetario, ha voluto la deregulation finanziaria (all’origine della crisi del 2007) o chi, come Renzi e i cosiddetti “Socialisti e Democratici” europei, parla di “Europa solidale” senza aver mai fatto nulla di concreto per creare un welfare europeo né armonizzare le politiche fiscali e, al momento, sta negoziando con gli Usa un trattato commerciale (il Ttip) che vincolerà enormemente il margine d’azione dei governi europei, ma di cui non sono stati resi noti i contenuti all’opinione pubblica. Chi è che fa veramente demagogia?

Foto Stefano Stranges