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La sera al molo non fa freddo. Una storia lampedusana

È fine giugno. Siamo arrivati qui a Lampedusa come tanti altri perché vogliamo fare una vacanza tranquilla: sole, mare, scogli, pesca… Tutte cose che abbiamo fatto in abbondanza. Perché Lampedusa è un’isola bellissima. Non è una zona “a rischio” e la televisione mostra – come troppo spesso accade – un volto falsato delle cose. Però qui non ci puoi venire senza un minimo di coscienza che quest’isola non è nota – almeno da un po’ di anni a questa parte – solo per il turismo e la bellezza dei luoghi. Parlando con altri turisti che abbiamo incontrato per strada o al mare (qui si attacca bottone velocemente) ci siamo subito accorti che in molti (troppi) non sanno, o fingono di non sapere, la tragedia umana che si consuma attorno all’isola.

Qui tutti gli isolani lavorano perché il dramma dell’immigrazione, o meglio il dramma delle persone migranti, non si noti: ogni tanto, tra i tanti che passeggiano per via Roma (soprattutto la sera), si vede qualche uomo, donna (ma soprattutto uomo) o giovanissimo ragazzo (soprattutto giovanissimo ragazzo!) con un diverso colore della pelle. E puoi essere quasi sicuro si tratti di un migrante, perlopiù seduto sulle panche in pietra nella piazza davanti alla chiesa del paese a seguire con lo sguardo la gente passare o i ragazzi del luogo che lì giocano a pallone.

In realtà, non è stato a caso che abbiamo deciso di fare una vacanza qui. Volevamo, anche se per poco, vedere con i nostri occhi, capire con le nostre teste quel era la situazione dei migranti che passano per Lampedusa. E incontrare Francesco Piobbichi di Mediterranean Hope (MH) è stato illuminante. Un pomeriggio caldo veniamo accolti nel locale del centro bianco e azzurro, appena pitturato, in cui compare la scritta “finanziato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia” e ti senti felice di far parte di questa comunità. E con Francesco ci troviamo subito a riflettere sul concetto di frontiera: lui è uno dei responsabili del progetto, quarantenne umbro temporaneamente imprestato all’isola, lavora da anni con i migranti. Ci dice del via vai di gente che passa da MH volontari e antropologi, del suo non essere valdese e del fatto che adora Lampedusa anche se la polvere della terra desertica gli peggiora l’asma.

La sera del nostro primo incontro, siamo con Francesco, Alberto, Linda e altri lampedusani. Ad un certo punto, veniamo avvertiti dell’arrivo di altri migranti al porto nuovo. Il lavoro dei volontari è fatto tutto di piccoli “equilibrismi”: nessuno ufficialmente li avverte dell’arrivo dei migranti (che avviene perlopiù di notte «perché nessuno si accorga di nulla»); nessuna delle presenze “ufficiali” (capitaneria, carabinieri, finanza e La Misericordia) li vuole al porto perché nessuno, di fatto, accoglie i migranti che vengono trattati come merce scambiata di contrabbando, di nascosto ed in silenzio; ma, almeno, nessuno ha da questionare sugli “unici volontari autorizzati” – le suore – al seguito dei quali quelli di MH riescono a passare per tentare di mostrare un volto umano a quanti arrivano.

La sera non fa freddo. Qui di giorno non si arriva ai 30° e di sera ai 23/24°. Ma la percezione è un’arma potente. Quella sera siamo riusciti ad andare anche noi al porto. Non c’erano suore e, stranamente – perché è stato veramente un caso abbastanza eccezionale – nessuno ci ha fatto questioni all’ingresso del porto. I migranti che arrivano non la pensano certo come noi riguardo alla temperatura: alcuni avvolti nella coperta termica non la smettevano di tremare, abbracciandosi da soli anche dopo lo sbarco. Demolito l’immaginario del «barcone» che arriva carico di migranti, abbiamo visto arrivare per due volte il battello della capitaneria: i «barconi», infatti, vengono intercettati molto prima dell’arrivo all’isola (in molti casi, «Triton» li intercetta già a 20 miglia dalla Libia). L’attracco è terribile in senso stretto: all’arrivo della prima barca (ne sono arrivate due), tutte le persone sulla barca cominciano ad applaudire e a gridare di gioia (qualcuno grida: «Italia uno!»…).

È uno spettacolo incredibile. Anche le persone sulla banchina sono molto colpite da questa reazione. Alcuni dicono di non aver mai visto i migranti in arrivo avere questa reazione. Poi la barca fa un giro su se stessa e vediamo il tragico, l’altra faccia del terribile: le donne sedute, composte, cariche di dignità, assieme ai loro bambini… Ci scendono delle lacrime senza che possiamo farci nulla. Francesco si avvicina: «Emozionante, vero?».

Sulla grande barca che trasporta donne, uomini e bambini ci sono uomini mascherati: una tuta bianca, guanti e mascherina, evidentemente li protegge da qualche male nascosto. I migranti vengono fatti scendere ordinatamente. Cala il silenzio, un silenzio strano. Sulla banchina, a due a due, tutte e tutti gli imbarcati vengono controllati dagli infermieri e dalle infermiere preposti. Potrebbero avere la scabbia. Davanti a tutti gli astanti, vengono calate loro le braghe, alzate le gonne, senza alcuna considerazione riguardo alla “pubblicità” della loro intimità. Ma forse quest’intimità l’hanno già ben perduta. Così, tutte e tutti (questa volta sono somale e somali) vengono messi in file e fatti procedere all’uscita del porto, verso il pullman che li condurrà al Centro di Prima Accoglienza (il tutto il più velocemente possibile e lontano dai turisti). Mentre procedono verso l’uscita, diamo loro tè caldo, acqua, una merendina, dei cracker… Ma quello che più conta è che nessuno di noi ha mascherine o tute da centrale nucleare. Una pacca sulla spalla, un sorriso: «Welcome to Italy». Ma poi, un po’, ti vergogni di averglielo detto. In definitiva, è questo il bello (e il semplice) del lavoro di MH: accoglie. Dà una parvenza di accoglienza a persone che altrimenti non vengono accolte da nessuno.

Una delle cose che più ci ha colpito è il fatto che nessuna delle persone migranti ha le scarpe che vengono loro tolte dagli scafisti perchè non buchino il gommone. Già, anche il non avere le scarpe, aver privato un essere umano delle sue scarpe è un segno di degradazione, una forma sommessa, non evidente, di umiliazione. Evidentemente al Centro devono dar loro delle scarpe nuove, perché uno dei segni distintivi del migrante per Lampedusa è, oltre allo sguardo sempre smarrito, l’avere tutti le scarpe uguali.

Alla fine, cerchiamo di ricomporre i pezzi nella nostra mente, frammenti di esseri umani che sono stati fatti a pezzi perché “cosificati” a tal punto da essere “gestibili” a tranci: volti, scarpe, vestiti, transiti… Ci rendiamo conto che nessuna di queste persone in viaggio parla, o meglio, che pochi ascoltano quello che certamente avrebbero ad raccontare. Perché queste donne, questi uomini, questi bambini hanno tutti una storia, sono essi stessi storia ma che deve essere raccontata per essere tale, per rientrare nel circolo delle vite.

La frontiera è una di quelle linee immaginarie, culturali, che diventano reali nella misura in cui le persone, per diversi motivi, lì s’incontrano o si scontrano. Negli anni della guerra (la Seconda), quest’isola era un luogo di confino (il confine più a sud dell’Italia) e qui la gente – esseri scomodi – ci veniva spedita per non fare ritorno. Ora, la stessa terra è confine per arrivare in un mondo sperato, quasi sempre attraverso il collettore del Sudan, dopo un lungo e terribile e pericolosissimo viaggio attraverso il deserto fino in Libia. In fondo, non superare il mare, per molte e molti migranti, è solo una delle opzioni possibili di morte in un esodo infinito…

Ah, questo non era un articolo sull’emergenza di Lampedusa, ma sulle persone che da qui continuamente passano, lasciando sulla propria pelle e nella propria memoria una traccia indelebile, turisti che godono di un luogo fantastico e migranti che arrivano speranzosi in Europa, ma prima di tutto e comunque sempre persone.

Un ringraziamento particolare a Francesco Piobbichi, Marta Bernardini, Alberto Mallardo e Linda Staffieri per la loro accoglienza, per le loro parole, per la loro presenza.

https://mediterraneanhope.wordpress.com/

Foto di henu, Licenza: CC0 Public Domain, by Pixabay