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La caserma, la prigione e la chiesa

Omar Venturelli Leonelli è stato uno dei sacerdoti cattolici che durante la seconda metà degli anni Sessanta in Cile guidò i contadini mapuches nell’occupazione delle terre regalate dal governo liberista e filo-liberista ai coloni occidentali. Il suo impegno gli costò la sospensione a divinis da parte del vescovo Bernardino Piñera. Dismesso l’abito talare e divenuto professore all’Università Cattolica di Temuco si sposò con Fresia Cea Villalobos. Nel 1971 nacque la figlia Maria Paz Venturelli Cea che oggi vive a Bologna. Alcuni giorni dopo il golpe di Pinochet che l’11 settembre 1973 rovesciò il governo democratico guidato dal presidente Salvador Allende, Venturelli si presentò ai militari della caserma Tucapel a Temuco (a circa 700 km a sud di Santiago). Era il 16 settembre. Venturelli, che era nato a Capitán Pastene (Cile) il 1° febbraio 1942 ed era un dirigente del Movimiento de Izquierda Revolucionaria, fu convinto dal padre, uomo di destra e amico del generale Ramirez Ramirez, che gli disse di non preoccuparsi perché si sarebbero limitati a prendere solo le generalità. A partire dal 25 settembre risulta ufficialmente detenuto nel carcere di Temuco. Entrambi i luoghi – la caserma e la prigione – sono gli stessi in cui in seguito è stato torturato lo scrittore Luis Sepulveda. Omar Venturelli è stato visto in vita da altri prigionieri fino al 10 ottobre, data in cui si presume sia stato ucciso dalla famigerata “Carovana della morte” guidata dal generale Sergio Arellano Stark.

Da circa 40 anni Camilo Gaete Moras è il contabile della Facoltà teologica evangelica di Santiago del Cile, ma quando Pinochet prese il potere viveva a Temuco. Qui è nato il 18 luglio 1950. All’epoca dei fatti era uno studente universitario in pedagogia, insegnava educazione fisica e svolgeva la funzione di delegato alla federazione studentesca. Unicamente per questo motivo il 9 novembre del 1973 fu arrestato dalla polizia militare e condotto nell’ufficio investigativo della sua città. Fu minacciato di morte e torturato per diverse ore, infine improvvisamente rilasciato. Ma con l’obbligo di non uscire di casa dopo le nove di sera. La sua libertà durò solo pochi giorni. Una settimana dopo viene di nuovo prelevato da uomini in divisa che questa volta lo conducono direttamente alla caserma Tucapel.

Incontro Camilo a Roma. È stato convocato dal pm Giancarlo Capaldo come persona informata sui fatti al filone del “processo Condor” che nell’aula bunker di Rebibbia si occupa di giudicare i presunti responsabili dell’omicidio di Omar Venturelli: Sergio Arellano Stark, Daniél Aguirre Mora, Carlos Luco Astroza, Orlando Moreno Vásquez, Hernán Jerónimo Ramírez Ramírez e Manuel Vásquez Chauan. Tutte pedine fondamentali del regime di Pinochet. «Non ho mai conosciuto personalmente Venturelli ma avevo sentito parlare molto di lui e della sua storia» mi racconta. «Nemmeno nel carcere di Temuco l’ho incontrato, molto probabilmente quando io vi entrai era già stato eliminato. Tuttavia – prosegue Gaete Moras  – sono stato chiamato a Roma per riconoscere gli uomini che agivano nei luoghi di detenzione e tortura in cui entrambi siamo stati condotti». Durante la sua testimonianza in aula più volte Camilo si è interrotto ed ha pianto. Ancora forte è la memoria delle umiliazioni e violenze subite. Segni indelebili nel corpo e nelle emozioni. «Mi torturavano ogni giorno, sempre le stesse domande: volevano sapere i nomi dei “sovversivi” che conoscevo, dove nascondevano le armi. Io non ho mai parlato». È durante il trasferimento nel luogo di tortura che riconosce uno degli imputati: Orlando Moreno. «Il trasferimento avveniva in auto e io venivo sempre bendato», mi spiega. «Una volta a causa delle botte la benda mi scivolò leggermente e riconobbi alla guida una fisionomia conosciuta. Era uno degli uomini che partecipavano alle sevizie. In seguito venni a sapere confrontandomi con i compagni di carcere che si trattava di Moreno». Qualche tempo dopo Camilo uscì dall’isolamento. «Alla fine di una sessione di tortura particolarmente feroce ricordo che finii in infermeria. Ero svenuto improvvisamente e perdevo molto sangue. Non volevano che io morissi, pensavano davvero che sapessi qualcosa». Camilo Gaete Moras fu curato, per modo di dire, per tre giorni. Al suo ritorno in cella non era in grado di parlare, né di camminare. Spossato dalla fame e dalla sete fu aiutato da un altro detenuto incurante di eventuali rischi. «All’improvviso questa persona si alza, mi offre delle coperte e una specie di materasso e mi dice di sdraiarmi lì. E lì ho passato la notte. Il giorno dopo mi disse che era un pastore evangelico e che si chiamava Eduardo Pizero. Avrà avuto circa 30 anni. Era detenuto anche lui e mi ha dato la mano. Non avrei mai immaginato di incontrare un religioso in quel carcere, agli arresti. Allo stesso modo mai avrei immaginato che vi finisse uno come Venturelli». Diversamente dall’ex sacerdote di origine italiana, Pizero qualche giorno dopo fu liberato. Gaete Moras, invece, finì davanti a un giudice della procura militare di Temuco e fu condannato a cinque anni di detenzione nel carcere cittadino a causa del suo ruolo di rappresentante studentesco. La pena è stata in seguito ridotta a 540 giorni e a dicembre del 1974 – con un paio di mesi d’anticipo – senza alcun preavviso Camilo viene liberato. «Mi dissero di preparare le mie cose perché sarei uscito il giorno dopo. Pretesi di firmare sul registro delle scarcerazioni ma non me lo permisero. Avevo paura che una volta fuori mi avrebbero sparato come fossi un fuggitivo perché non c’era nessun documento che provasse che ero in stato di libertà. Fortunatamente non accadde nulla».

La paura che fosse comunque una trappola non lo abbandonò. Dopo essere andato a casa e aver salutato la moglie e la sua famiglia si recò alla chiesa più vicina. «Era una chiesa battista, vi si svolgeva una funzione. Chiesi di poter parlare di fronte ai fedeli e mi fu concesso: raccontai in pubblico la mia storia. In questo modo pensai di farmi dei testimoni. Ma non ero affatto tranquillo. Mi accorsi che la mia casa era sorvegliata. Quindi il giorno dopo andai a parlare con il  pastore luterano, Wolfgang Verner, e il pastore metodista Helmut Nadt. Mi consigliarono di andar via da Temuco e di rifugiarmi con la famiglia al Comitato Pro Pace di Santiago del Cile».

Il Comitato era stato fondato dal vescovo luterano Halmut Franz, inviso alla giunta militare per aver partecipato nel settembre del 1973 alla creazione della Comisión Nacional de Ayuda a los Refugiados (Conar), riconosciuta dalle Nazioni Unite. Si calcola che aiutò circa 7mila persone a fuggire dal Cile dando loro sostegno economico, spirituale e giuridico. Anche Camilo Gaete Moras e la sua famiglia furono aiutati da Franz poco prima che venisse espulso dal Paese e costretto a tornare in Germania. «Dovevo mantenere mia moglie e mia figlia e non avevo un’occupazione. Tramite il Comitato Pro Pace svolsi diversi lavoretti soprattutto come lavavetri o addetto alle pulizie casalinghe. Decidemmo di non espatriare, volevamo rimanere a Santiago. Tempo dopo andai a trovare una compagna d’università che mi aveva visitato in carcere. Mi parlò di un pastore evangelico metodista, che forse avrebbe potuto aiutarmi. Lo andai a trovare nel suo ufficio, un pomeriggio. Neftalí Aravena Bravo mi ascoltò e senza conoscermi si fidò di me. C’era bisogno di un contabile alla Facoltà teologica evangelica, avrei potuto cominciare il giorno dopo. Era il luglio del 1975, questo è ancora il mio lavoro».

Omar Venturelli Leonelli è tuttora uno dei circa tremila desaparecidos della dittatura cilena di Augusto Pinochet (1973-1988). È opinione concorde di storici, studiosi, giornalisti ed esperti che senza l’intervento delle diverse chiese – evangelica, cattolica, battista, luterana – il numero delle persone scomparse in Cile sarebbe stato di gran lunga maggiore. Molto prossimo, probabilmente, ai 30mila attivisti che tra il 1976 e il 1983 furono eliminati dalla giunta militare nella vicina Argentina.

Foto: Camilo Gaete Moras (foto Lilia Di Monte)