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Non chiamateli clandestini

Dall’inizio dell’anno, sono oltre 1500 i morti nel Mediterraneo: uomini, donne, bambini che cercavano una via di fuga dall’orrore di guerre, violenze e persecuzioni e che sono finiti nelle mani di scafisti senza scrupoli, sempre più spesso legati alla criminalità o a centri di potere politico. Fuggono da paesi al collasso come la Somalia o l’Eritrea, da guerre civili come quelle in atto in Siria o in Iraq, da scontri e violenze tra fazioni come in Nigeria o in Mali… È un’intera area del mondo che non comprende solo l’Africa del Nord ma anche buona parte del Medio Oriente e della regione subshariana.

Chi riesce ad arrivare sulle coste italiane è una persona traumatizzata, che ha dovuto tagliare i ponti con il suo mondo. Non chiamiamoli clandestini. Hanno un nome e un cognome, una storia e un progetto, una lingua e una religione. Chiamandoli «clandestini» li priviamo della loro identità, mostrando così di non avere alcun interesse a capire chi sono, perché sono scappati e quali sono le loro mete.

Sempre più spesso sono persone sole. Si calcola che i ragazzi minorenni non accompagnati da alcun genitore siano oltre il 10% di coloro che arrivano in Italia. Molti di più vagano in Libia, in Egitto o in Tunisia, preda di criminali pronti a tutto per sottrarre loro i soldi della traversata che è tutto ciò che hanno in tasca.

Si calcola che negli ultimi vent’anni, nel canale di Sicilia siano morti circa 30.000 migranti, deceduti su barconi allo sfascio perché l’Europa non ha saputo e non ha voluto tutelare la loro vita e la loro sicurezza. E’ un dato che pesa sulla nostra coscienza; sulla coscienza dell’Europa dei diritti umani e del diritto internazionale, dell’umanesimo e delle tradizioni cristiane, della sua storia di migrazioni e del suo ruolo geopolitico.

Nelle scorse settimane, insieme alla comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle chiese evangeliche ha lanciato una proposta precisa e sostenibile per reagire a questo dramma: l’apertura di corridoi umanitari che consentano alle nostre ambasciate in nord Africa di rilasciare dei visti che consentano ai profughi di raggiungere l’Europa senza rischiare la vita. Non è la soluzione al problema della grandi migrazioni mediterranee ma è un passo in avanti sul piano dell’umanità, dell’accoglienza e della tutela dei diritti universali.

Questa proposta ha ottenuto numerosi consensi in Italia e all’estero. Se ne è parlato anche nelle chiese evangeliche che in Italia raccolgono un numero crescente di immigrati che talora provengono proprio dai paesi da cui oggi arrivano i profughi.

Vent’anni fa, quando l’immigrazione evangelica si fece più rilevante e consistente, fu lanciato lo slogan «Essere chiesa insieme»: italiani e immigrati in comunità integrate, sempre più multietniche e interculturali. Essere chiesa insieme oggi significa anche altro: essere chiesa accogliente e solidale che sa guardare negli occhi chi sbarca a Lampedusa e scopre che non sono clandestini ma sorelle e fratelli che bussano alla nostra porta.

Foto: Attività con i bambini, rifugiati siriani nella valle della Bekaa. Credits, di Oxfam Italia, con licenza CC BY-SA 2.0,  via flickr