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Dittatura alla sbarra

L’internazionale nera del terrore di Stato che durante gli anni ‘70 stroncò sul nascere l’espansione della democrazia parlamentare in diversi Paesi dell’America Latina si trova oggi alla sbarra a decine di migliaia di chilometri dai luoghi in cui si consumarono alcune delle tragedie più sconvolgenti della seconda metà del Novecento. Tra le più note basti citare la dittatura civile militare in Argentina (1976-1983) o quella cilena guidata dal generale Pinochet (1973-1989), che costarono la vita a decine di migliaia di giovani, di cui almeno 33mila risultano ancora desaparecidos. Agendo all’interno dei sette Paesi del Cono Sur (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Perù, Cile e Bolivia) tramite una ferrea collaborazione tra polizie ed eserciti, il piano segreto, denominato Operazione Condor, fu realizzato al di fuori di qualsiasi alveo costituzionale per reprimere, perseguitare, torturare, eliminare e far letteralmente scomparire gli attivisti di sinistra o chiunque fosse impegnato nella lotta per i diritti civili. E proprio l’assalto alla Moneda che l’11 settembre 1973 provocò il suicidio del presidente Salvador Allende e la fine della giovane democrazia cilena è al centro di uno storico processo che si sta svolgendo nell’aula bunker di Rebibbia a Roma. Qui la III Corte di Assise presieduta dal giudice Evelina Canale valuterà le responsabilità di 33 imputati: capi di Stato, ufficiali, agenti di polizia e dei servizi segreti boliviani, cileni, uruguaiani e peruviani, rinviati a giudizio con l’accusa di sequestro e omicidio dal pm Giancarlo Capaldo sulla base delle denunce dei parenti di 43 cittadini italiani o di origine italiana sequestrati e uccisi in Cile, Argentina, Bolivia, Perù e Uruguay tra il 1973 e il 1978. È questo il “processo Condor”.

Tra le vittime del golpe cileno c’è un giovane di origini piemontesi, Juan José Montiglio Murùa. La moglie, Rina Belvederessi e i figli Tamara e Alejandro chiedono giustizia in virtù della legge che consente allo Stato italiano di processare anche in contumacia i presunti responsabili di crimini contro l’umanità compiuti all’estero nei confronti di cittadini italiani. «Tra i testimoni – racconta Tamara Montiglio – abbiamo chiamato anche la presidente del Senato cileno Isabel Allende Bussi, figlia di Salvador e di Hortensia Bussi, che lasciò la Moneda pochi istanti prima dell’attacco su ordine del padre». Nato a Santiago del Cile nel 1949, Montiglio era un militante del Partito socialista e capo del Gap (Grupo de Amigos del Presidente), la scorta personale e più fidata di Allende, con il nome in codice Anibal. «Fu arrestato l’11 settembre dalle milizie di Pinochet – prosegue Tamara – ed è stato visto insieme ad altri prigionieri alla Caserma Tacna, dove si presume che sia stato ucciso pochi giorni dopo insieme ad altri Gap». In Cile c’è un processo che riguarda la sua vicenda iniziato circa 20 anni fa. Ma Rina e i suoi due figli non hanno mai testimoniato prima di oggi in un’aula giudiziaria sull’omicidio e la scomparsa di Montiglio. «Per ora ci sono state solo indagini, nessuna udienza vera e propria. Molto probabilmente la sentenza di Roma arriverà, nel 2016, prima di quella cilena e per questo – sottolinea – la nostra famiglia è molto grata allo Stato italiano».

Secondo le testimonianze di Julio Soto Cespedes (autista di Allende) e Juan Osses – due Gap compagni di Anibal sopravvissuti al massacro dei giorni successivi al putsch Moneda – il padre di Tamara fu imprigionato, torturato, fucilato a colpi di mitra e fatto saltare in aria con delle bombe a mano nella caserma Tacna dai militari comandati da Rafael Francisco Ahumada Valderrama. È uno dei 3mila desaparecidos cileni: il suo corpo non è mai stato ritrovato. Nel 1979 Pinochet, seguendo l’esempio della dittatura argentina, con l’operazione “Ritiro dei televisori” ordinò di far sparire i resti dei prigionieri politici, riesumandoli e gettandoli in mare. Qualche frammento osseo rimase comunque nella fossa comune della Tacna e grazie all’esame del dna alcuni resti sono stati restituiti alle rispettive famiglie. Anibal non è tra questi. «Per identificarlo – spiega Tamara Montiglio – occorrerebbe trovare mia nonna che lo aveva avuto da una relazione extraconiugale. Si sa solo che potrebbe avere il cognome Venezia. Poiché il dna mitocondriale di una persona si ricava da quello della madre, la questione resta irrisolta. Tant’è che mia mamma in Cile risulta ancora sposata con lui. Non è considerata una vedova». Tamara nel 1973 aveva meno di due anni e ha conosciuto la vera storia di suo padre solo a ottobre del 1988. «Per proteggerci eravamo sempre stati tenuti all’oscuro. Il 5 ottobre 1988 ci fu il plebiscito che si è concluso con la vittoria dei No al prolungamento del mandato di Pinochet per altri otto anni. Vennero pertanto indette nuove elezioni: fu l’inizio della fine della dittatura, caduta l’anno dopo. Nei giorni precedenti, poiché iniziavano a circolare più notizie del solito anche sugli anni del golpe, mia madre e mia nonna pensarono che avremmo potuto vedere qualche foto o leggere qualche articolo su papà e i suoi compagni, quindi decisero di raccontare a me e a mio fratello di un anno più grande che cosa era successo alla nostra famiglia l’11 settembre 1973».

La storia comincia una settimana prima. «Il 4 settembre il governo socialista aveva assegnato ai miei genitori una casa popolare. Fino a quel momento avevamo vissuto con i miei nonni materni. Per tre giorni papà e mamma sono stati a pulire, il 7 settembre siamo andati a vivere tutti insieme nella nuova casa. Pochi giorni dopo ci venne improvvisamente a prendere mio nonno con una zia. Insieme a mamma siamo tornati a casa dei miei nonni. Avevo 2 anni, ci sono rimasta fino a 25». La vita della famiglia Montiglio cambiò bruscamente. «Nonno era dentista, durante gli anni della dittatura abbiamo vissuto in un quartiere borghese e con mio fratello abbiamo studiato nella scuola italiana. Non abbiamo mai sospettato nulla. Mia madre negli anni ci raccontò tanti particolari della vita e del carattere di papà. Sapevamo che era stato un dirigente dei giovani studenti socialisti, che gli piaceva ascoltare gli Inti Illimani. A poco a poco ci mostrava come era Montiglio ma senza mai arrivare a raccontare qualcosa che potesse far pensare alla sua presenza a fianco di Allende nel giorno della fine. Ci diceva che era morto per una brutta malattia, la tenia». Una metafora che Rina non ha scelto a caso per alludere alla dittatura fascista di Pinochet. «Poi – prosegue Tamara – quel giorno del 1988 finalmente ho saputo. Lei ha cominciato a raccontare come aveva conosciuto papà all’università. Che prima erano amici e che dopo è nato l’amore. E poi che lui era molto più che un semplice studente socialista impegnato politicamente. Nel 1970 il partito gli aveva chiesto di entrare nel dispositivo del Gap per fare da scorta ad Allende. Lui lo raccontò a mamma quando aveva già preso la decisione di accettare. Entrò nella scorta il 23 novembre 1970, due giorni dopo è nato mio fratello Alejandro. Quando ci disse come è morto papà sono stata male. Il colpo è stato durissimo. Ricordo però che in quel momento mi sono resa conto di averlo sempre saputo. I racconti di mamma, alcune sue conversazioni a mezza bocca con la nonna. È stato come se improvvisamente si mettessero insieme tanti frammenti di un puzzle». L’11 settembre 1973 Anibal aveva 24 anni. Era cileno e suo padre era italiano.

Con il caso Montiglio a Roma per la prima volta al mondo in un’aula giudiziaria si parla degli eventi accaduti nel giorno del colpo di Stato ordito da Augusto Pinochet. In Cile è ancora in vigore la Costituzione varata dal generale golpista e questo influenza l’attività dei giudici e dei magistrati che prosegue con estrema lentezza. «Sono stati commessi crimini contro l’umanità ma nel mio Paese la polizia continua a far finta di indagare», sibila Tamara serrando la bocca.

Foto © Lilia Di Monte