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Femminile e maschile, non neutro

Il 3 marzo il Consiglio Regionale del Piemonte ha approvato una mozione con la quale si impegnano i presidenti della Giunta e del Consiglio regionale a promuovere la revisione del linguaggio negli atti amministrativi e legislativi nell’ottica di un corretto uso del linguaggio di genere.

Un paio di giorni più tardi, la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha inviato una lettera di indirizzo a deputati e deputate, invitandoli a riferirsi, nel corso dei dibattiti in aula, a cariche e ruoli istituzionali rispettando il genere della persona cui essi si riferiscono. In quello stesso giorno, la presidente ha inoltre promosso a Montecitorio un incontro intitolato Non Siamo Così. Donne, parole e immagini, durante il quale esponenti delle istituzioni, italiane e straniere, una linguista e alcuni esperti di comunicazione a vario titolo sono intervenuti sul linguaggio di genere e, più in generale, sulla rappresentazione del femminile.

Si tratta di iniziative importanti che segnano, una nel centro e l’altra alla periferia del nostro sistema politico, un passo avanti in un cammino di sensibilizzazione e responsabilizzazione delle istituzioni pubbliche iniziato ormai quasi trent’anni fa, se lo vogliamo far iniziare colla pubblicazione del bel volumetto di Alma Sabatini intitolato Il sessismo nella lingua italiana edito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1987.

Nella sostanza si tratta di inviti molto pacati a un uso corretto e consapevole delle potenzialità della lingua italiana nella resa del genere della persona cui ci si riferisce: ministra e non ministro, la presidente e non il presidente, deputata e non deputato ecc. se si tratta di donne. Insomma, nessuna battaglia contro i suffissi di derivazione ormai acclimatati nell’uso come quelli che troviamo in professoressa, dottoressa, direttrice, scrittrice ecc. e nemmeno l’imposizione di soluzioni grafiche estranee alla nostra tradizione come barrette o asterischi.

A tutta prima non si capisce dunque la reazione isterica manifestata sui social-network prima e su alcuni blog e testate d’opposizione poi, alcune delle quali sono arrivate a evocare la neolingua di orwelliana memoria e gli interventi di politica linguistica di epoca fascista (evidentemente senza aver capito nulla né del primo, né dei secondi). Un tentativo di spiegazione di questa ostilità – soprattutto maschile, ma non manca quella femminile – è stato avanzato durante l’incontro romano dalla linguista Cecilia Robustelli che ha individuato diversi fattori: si va da una diffusa assenza di consapevolezza unita spesso a pigrizia intellettuale, sino all’adesione consapevole o per calcolo a modelli tradizionalmente maschili, per giungere a più comprensibili incertezze sull’uso corretto della lingua e l’assenza di una norma di riferimento. Tra gli “argomenti” branditi contro l’iniziativa di Boldrini, il sempre verde invito a occuparsi di cose ben più importanti (trito artificio retorico per non essere raggiunti dalla portata delle argomentazioni); il fastidio per le nuove parole ritenute cacofoniche (basta avvicinare parole ritenute “brutte” come ingegnera, ministra, avvocata ecc. a un’analoga serie di parole “belle” come cameriera, maestra, incaricata ecc. per capire che la “bruttezza” non ha nulla di linguistico e deriva semplicemente dalla novità); la convinzione, infine, che esista un maschile “neutro” (cosa non vera) o che ci si debba riferire non già alla persona, ma alla carica che di per sé non è sessuata (considerazione che discende da una visione idealizzata del mondo semplicemente sganciata dalla realtà dei fatti).

Il cammino, dunque, è ancora lungo e non basteranno certo alcuni inviti ufficiali a usi più corretti della lingua per superare secolari condizioni di discriminazione, ma sono certo che questa non è una ragione per rinunciare alla diffusione di un uso più consapevole della lingua che non nasconda la realtà dei fatti.

Foto via Pixabay | Licenza: CC0 Public Domain