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L’est Europa prende la strada di Mosca?

Nello scorso fine settimana le elezioni presidenziali in Bulgaria e Moldavia hanno premiato due candidati considerati vicini alla Russia e a Vladimir Putin, o comunque critici nei confronti dell’Unione europea. In entrambi i casi, secondo giornalisti e osservatori, hanno pesato la stanchezza degli elettori per i numerosi casi di corruzione che hanno coinvolto i governi in carica e che, sommati alla povertà della popolazione dei due Paesi, hanno decretato una risposta forte a una situazione stabilizzata in modo negativo. In Bulgaria, visto l’esito delle elezioni, il primo ministro Borissov ha rassegnato le dimissioni.

La chiave di lettura più diffusa è quella che vede il risultato dei due voti come accomunato da un avvicinamento alla Russia e a un conseguente allontanamento dall’Unione europea. Ma è una visione corretta e coerente? Secondo Matteo Zola, direttore di East Journal, «si tratta di due situazioni molto differenti tra loro, accomunate dal fatto che il presidente eletto risulta essere in qualche modo vicino a Mosca. Tuttavia, è una lettura che non tiene conto della differenza profonda tra i due contesti».

Partiamo dalla Moldavia allora. In questo caso possiamo considerare il risultato come una vera presa di distanze dall’Unione europea?

«Partiamo da più lontano: la Moldavia si trova in una difficile crisi economica, è un Paese che è stato attraversato da uno caso di corruzione di enormi proporzioni, costato un miliardo di dollari alle casse dello Stato, che per un’economia così piccola è una cifra enorme. Il malcontento popolare verso l’attuale governo, formato da partiti liberali e liberal-conservatori tenuti insieme solo dall’europeismo e dal desiderio di avvicinare il Paese verso l’Unione europea, è grande, perché nonostante i risultati ottenuti con la firma dell’Accordo di associazione con l’Unione europea, si tratta di partiti che non hanno saputo guidare in maniera adeguata il Paese, ma che invece si sono abbandonati a ladrocini. L’elettorato ha preferito un candidato di protesta. Certo, il nuovo presidente eletto, Igor Dodon, è un uomo che non ha mai nascosto la sua vicinanza con Putin. Alle precedenti elezioni parlamentari, nel 2014, si era candidato con il partito socialista, e aveva anche ottenuto un certo riscontro, ma la cosa singolare erano i cartelloni elettorali, in cui era fotografato proprio insieme a Putin, e questo ci dice che la sua, più che una vicinanza alla Russia, è una vicinanza personale a Putin. Durante la campagna elettorale ha promesso di stracciare l’accordo di associazione con l’Unione europea e di portare la Moldavia dentro all’Unione euroasiatica che Mosca sta faticosamente cercando di costruire, quindi in sintesi è un candidato che possiamo definire come filorusso».

Pesa sul voto moldavo la gestione della crisi ucraina da parte dell’Unione europea?

«Sicuramente le modalità con cui l’Unione europea ha gestito, o meglio non gestito, la crisi ucraina, ha destabilizzato l’intera area. La Moldavia ha anche una particolarità: si trova ad avere al suo interno una repubblica autonoma di fatto, non riconosciuta da nessuno, occupata da forze militari russe che sono lì dal 1990 e che hanno fatto di questa sottile striscia di terra che si trova ad est del fiume Nistro, da cui il nome Transnistria, una enclave che nei decenni scorsi era nota come grande centro internazionale del traffico di droga o di armi. Oggi si è normalizzata, ma resta una spina nel fianco per qualsiasi governo moldavo e per chiunque possa immaginare una eventuale adesione moldava all’Unione europea. La Moldavia riproduce quindi al proprio interno lo schema ucraino, con una presenza militare russa e quindi certamente le possibilità di destabilizzazione del Paese ci sono. La vittoria di Dodon potrebbe scongiurarle, visto che ha dichiarato più volte di poter dare una direzione precisa a questa situazione, proprio in virtù della sua vicinanza con Mosca».

Possiamo parlare di avvicinamento a Mosca anche per la Bulgaria?

«No, la situazione bulgara è un po’ diversa, perché l’attuale presidente eletto, Rumen Radev, anche lui esponente del partito socialista, ha certamente tradizionali legami e vicinanza con la Russia, ma è tutta la politica bulgara ad averla, così come la cultura dei Paese. Radev è stato etichettato come filorusso per alcune dichiarazioni fatte durante la campagna elettorale, come per esempio per la sua freddezza nel condannare l’occupazione della Crimea da parte della Russia, oppure per la contrarietà alle sanzioni europee verso Mosca, ma bisogna dire che per esempio anche il premier italiano è contrario alle sanzioni, eppure nessuno definisce filorusso Renzi.

Oltretutto, Radev è anche un ex generale di un esercito che fa parte della Nato e lui stesso si è formato in un’accademia negli Stati Uniti. In un’intervista rilasciata al Financial Times appena dopo la sua elezione, Radev ha dichiarato che il futuro politico della Bulgaria è l’Unione europea, per cui non possiamo parlare di euroscetticismo. È vero, rispetto al partito di governo e alla sua candidata, Tsetska Tsacheva, è meno legato all’europeismo, ma non dimentichiamo che il partito di governo sarà pure europeista, ma è uno dei partiti più corrotti che esistano in Europa, è guidato da Bojko Borissov, un uomo con un passato molto torbido, legato anche alla criminalità organizzata. Insomma, l’europeismo non lava tutti i mali, non è un valore in sé».

Rimaniamo in Bulgaria, dove si è verificato un piccolo effetto domino, visto che il primo ministro Borissov ha deciso di dimettersi. Questo potrà portare a una maggioranza maggiormente vicina a quella del presidente anche il resto della politica bulgara?

«È possibile ma non è detto: il partito del premier, che si è dimesso, sconta con queste elezioni un malcontento generale da parte della popolazione che era anche scesa in piazza nei mesi scorsi, quindi in un certo senso anche l’elezione di Radev è un voto di protesta. Il partito di governo ha espresso tutti i presidenti degli ultimi due mandati e in questo turno credeva di vincere facile, ma evidentemente ha fatto male i conti e gli è andata male. Se questo avrà delle ricadute sulle elezioni parlamentari è tutto da vedere, perché non è la prima volta che Borissov si dimette, ma poi ha sempre continuato a guidare la politica bulgara o quantomeno a influenzarla in modo pesante. Dobbiamo pensare a lui come al deus ex machina della politica bulgara».

Questi due casi di candidati che non piacciono particolarmente a Bruxelles sono destinati a rimanere isolati nell’Europa orientale?

«L’Europa orientale, e forse non soltanto, è in una fase di subbuglio. In Polonia, per esempio, c’è un governo fortemente euroscettico e nazionalista, che tra l’altro sta portando avanti delle operazioni di tipo costituzionale del tutto illecite che stanno spingendo l’Unione europee verso la sospensione della Polonia da alcune procedure di voto in seno all’Unione Europea. Oltre a quello ci sono l’Ungheria di Orbán, di cui conosciamo le imprese e le inclinazioni, la Slovacchia e la Repubblica Ceca, che sono fortemente euroscettiche e che stanno portando avanti progetti di ricostruzione della democrazia in chiave illiberale, per usare una definizione coniata dallo stesso Orban. Diciamo quindi che l’orbanismo domina l’Europa centro-orientale. Ci troviamo poi con la Bulgaria, che rimane tutto sommato in una situazione stabile nella sua instabilità, e quindi non credo che prenderà la via di Mosca, e infine ci sono i Paesi vicini, che confinano con l’Ue: l’Ucraina affronta una situazione di conflitto, mentre la Moldavia sta andando verso Mosca. Si tratta di un’area che vive una turbolenza, e Bruxelles la dovrà gestire nel migliore dei modi».

Immagine: via http://en.kremlin.ru/