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Attraversare il buio, raccontare la paura

Un libro appena uscito in libreria e un film da parecchie settimane sugli schermi affrontano un grande tema sul quale sono stati versati fiumi di parole e chilometri di pellicola. La malattia mentale, affrontata attraverso la sofferenza psichica dei protagonisti e delle conseguenze nelle relazioni con chi sta loro accanto.

La vita felice è l’ultima opera letteraria di Elena Varvello*. Con una prosa secca e incalzante racconta il disastro di un male non riconosciuto, per amore, per paura, per ignoranza, che conduce alla disgregazione della vita di parecchie persone. Potrebbe essere Piemonte, potrebbe essere ovunque: un paesino di provincia, l’economia legata a una fabbrica che chiude e l’effetto dirompente che la perdita del lavoro provoca nei più fragili. Elia è il figlio unico di una piccola famiglia che arranca come tante in una quotidianità fatta di abitudini, di solitudine, di un isolamento molto più profondo di come non appaia.

Molti, molti anni dopo Elia diventato adulto racconta e cerca un senso all’accaduto di sedici anni prima, presta parole e pensieri a chi non può più dire, intreccia le storie di chi c’era e non ha saputo cogliere per tempo quanta sofferenza covava nelle presunte bizzarrie di un uomo malato che aveva bisogno e diritto di aiuto e di cure da tanto tempo. La comunità narrata è veramente minuscola, donne sole che affrontano problemi di salute, di lavoro, di famiglia, un paio di ragazzi adolescenti e alcuni uomini adulti, tutti a loro modo problematici. Due delitti intrecciati con la malattia mentale del papà di Elia, narrati attraverso i suoi ricordi, le sue emozioni e soprattutto la sua paura. Il contesto sociale ed economico narrato sembra portarci a considerare ineluttabile l’accaduto eppure potrebbe esserci uno sviluppo diverso; quante volte ci guardiamo intorno e scorgiamo situazioni che richiederebbero interventi di operatori qualificati nelle quali non si vuole intervenire.

Il buio torna più volte nel romanzo, nel portico, nel bosco, ma non è solo il buio della notte: è anche quello che avvolge la mente e il cuore dei protagonisti. Una donna innamorata, un adolescente che esplora la vita e le sue emozioni, relazioni umane impastoiate nei pregiudizi e nella miseria. La mancanza di luce impedisce di vedere la realtà e di portare aiuto, ma anche di chiedere, pretendere soccorso. Una storia come tante che troppo spesso abbiamo incontrato. Nel romanzo l’autrice sceglie una scorciatoia che tronca il disastro che potrebbe continuare per anni e anni coinvolgendo altre vite. In questo modo forse non ci dà modo di capire appieno quali cicatrici la storia narrata lascia nei protagonisti, quanti sospetti rimangono sospesi ingigantiti dal non-detto, da una condivisione e restituzione autogestita dalle sopravvissute.

Per completare un week-end di esplorazione dell’infelicità, consiglio anche la visione del film La pazza gioia**. Quanti bei film ci ha regalato Paolo Virzi! Da Ovosodo a Caterina va in città a Io e Napoleone, al mestissimo Il capitale umano a questo ultimo, dove la gioia è solo nel titolo. L’abilità di Virzì sta nel raccontare delle storie umanissime, e lievi soltanto all’apparenza. Anche in questo caso ci presenta una commedia, italiana per luoghi e personaggi: ma con quale maestria dipana il racconto di una situazione che potrebbe essere divertente e diventa l’occasione per mostrarci il confine sottilissimo tra normalità e follia, tra umanità e barbarie…

Beatrice e Donatella si incontrano in una comunità di recupero/custodia, una sorta di alternativa all’ospedale psichiatrico giudiziario dove la somma di delitto e diagnosi psichiatrica le relegherebbe. L’apparato giudiziario le ha condannate, c’è chi ha provveduto a definire una diagnosi, a impostare delle terapie farmacologiche; giungono da varie parti d’Italia in questa bella villa toscana sul colle, circondata da un parco antico, dove l’apparato della chiesa cattolica romana offre operatori e riti. Ma quanta intelligenza tra gli operatori laici e le religiose di Villa Biondi, quanto prendersi cura delle vite massacrate delle donne che hanno in custodia.

La fuga improvvisata delle due protagoniste diventa l’occasione per raccontare quanta malvagità, ignoranza allignino nell’umanità che incontrano e che rimanda al loro passato, e offre un grande spunto di riflessione sulle «situazioni grilletto» che innescano le crisi psichiche. Il racconto della fuga delle due donne è quanto di più prevedibile ci si possa immaginare, ma Virzì descrive con crudezza i figuri, quasi tutti maschili, che innescano una corrente di simpatia per Beatrice e Donatella, così diverse e così entrambe fragili. Il regista nutre la speranza che la parte sana dell’umanità, i genitori adottivi di Elia, gli operatori laici e religiosi di Villa Biondi, possano sostenere e accogliere la sofferenza psichica. L’epilogo è però amaro perché sembra convincerci che solo in un mondo a parte, di segregazione e di custodia, sia pure protettivo e accogliente, ci sia spazio per la malattia mentale.

* E. Varvello, La vita felice. Torino, Einaudi, 2016, pp. 200, euro 18,50.

** P. Virzì, La pazza gioia, con V. Bruni Tedeschi, M. Ramazzotti, M. Messeri, A. Galiena. Italia, 2016.