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Alla ricerca della coscienza smarrita

Caso di coscienza, obiezione di coscienza, libertà di coscienza. La diffusione di un termine va di pari passo con la vaghezza del significato che gli si attribuisce. Già di per sé, tuttavia, la parola si presenta come utilizzabile in vari modi.

Stiamo per festeggiare il XXV Aprile, festa cara a chi crede nella democrazia e invisa a chi la democrazia ritiene opzionabile. Ma la storia di questa festa è fatta di una progressiva condivisione, una presa di coscienza collettiva che ha richiesto tempo e che ha coinvolto, non senza qualche retorica, la generazioni via via più giovani. La coscienza – in questo caso – come processo che, a posteriori, chiarì ai più giovani il senso dell’ideale condiviso che portò la generazione precedente a superare le proprie divisioni ideologiche per liberarsi del nazifascismo.. Una presa di coscienza improvvisa, invece, fece fare la scelta precedente, quella dell’8 settembre 1943: fu un risveglio delle coscienze, anche.

Parliamo di coscienza perché il mancato raggiungimento del quorum nel referendum sulle trivellazioni lungo le nostre coste (17 aprile) ha reso visibile, una volta di più, la caricatura che siamo riusciti a fare di uno strumento, nato per essere strumento di democrazia; a tutti vien fatto di pensare, se si dice referendum, a quella prima consultazione con la quale gli italiani e le italiane si rifiutarono di abrogare la legge sul divorzio. Ecco, quello era il caso più chiaro (come poi saranno i referendum sull’aborto e in verità pochi altri) di consultazione indetta su un «tema di coscienza». Poi abbiamo visto di tutto: referendum a grappolo, dai quesiti incomprensibili, richiesti e indetti per colpire i governi o per colpire (o quantomeno protestare contro) determinate categorie di persone o di organi dello Stato.

Ora solo chi sia realmente, direttamente e sulla propria pelle motivato a votare, si reca al seggio. Così è stato per esempio per i referendum sulla legge 40 (procreazione assistita). Un panorama triste, di cui alcuni approfittano, alcuni si valgono, altri si vantano, trasformandoli in plebisciti personali. Non è sfuggito a questo destino il referendum sulle trivellazioni: all’apparenza marginale, il testo da abrogare era in realtà rivelatore di un modo di procedere nei rapporti fra Stato e aziende che a me personalmente non piace (e dunque ho votato sì): ma mi rendo conto che le mie considerazioni (al pari di molte di segno contrario) sono più ampie, più generali, meno specifiche; vanno al di là del testo di legge da abrogare o da mantenere. Sarebbero non «fuori tema», ma «oltre il tema».

Ma bisogna chiederci se abbia ancora senso mantenere l’istituto referendario, che ormai ben difficilmente raggiunge il suo scopo, in questa forma. Non parlo qui del costo economico. Parlo del costo culturale, ben più grave. Crediamo di avere uno strumento democratico a disposizione, e non è più vero. È svuotato di senso, viene utilizzato per altri fini, con grossa disparità di forze in campo tra i proponenti (se questi sono movimenti popolari) e le istituzioni. Soprattutto i referendum comunque non riguardano più dei temi di coscienza generale.

Quest’ultima viene banalizzata e dileggiata: in Parlamento il voto «secondo coscienza», garantito dalla Costituzione (art. 67), è di fatto praticato per tendere imboscate ai leader dei vari partiti o contrattarne i favori; nella vita comune (che non è meglio della politica): un po’ tutti dimentichiamo che la coscienza ha dei costi: se vogliamo esercitare un diritto a dire «no», dobbiamo anche accettare di portarne le conseguenze: per questo per molti anni gli obiettori al servizio militare dovevano svolgere un servizio civile di durata più lunga.

Coscienza, soprattutto per i protestanti, fa rima con responsabilità. Non è qualcosa che si debba pretendere dagli altri, se non si è disposti a farsene protagonisti prendendosene le responsabilità. «Nell’Inghilterra dei primi decenni del Seicento, la coscienza non riguardava la libertà di scelta individuale (…): la coscienza era uno strumento per discernere la volontà di Dio» – così scrive Massimo Rubboli nel suo intervento nel libro collettivo La coscienza protestante (a c. di E. Bein Ricco e D. Spini, Claudiana, 2015): si trattava per uomini e donne di allora e anche di oggi, di verificare la coerenza di atti e decisioni con l’educazione ricevuta, con gli impegni presi, con la testimonianza respirata nella propria chiesa: si trattava, e spero sia sempre così, di passare le parole dette al vaglio della Parola letta e studiata, trasfondendola anche nel vivere civile.

Non possiamo imporre una visione biblica e religiosa a chi non lo è. Ma perlomeno che tutti (istituzioni, scuole, centri di formazione, singoli) tengano presente di verificare se quanto sentono dire e se ciò che stanno per fare sia rispondente a quello che hanno creduto (magari anche ammettendo le proprie contraddizioni, giacché solo gli stupidi – dice il proverbio – non cambiano mai idea), beh, forse possiamo legittimamente pretenderlo.

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