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L’altra Heimat, epopea dell’interiorità

La distribuzione avvertiva da tempo, nei trailer che il 31 marzo e il 1° aprile si sarebbe potuto vedere, in Italia, L’altra Heimat, quarto tassello della «saga» sulla patria del regista tedesco Edgar Reitz*. Non era, purtroppo, un pesce d’aprile. Due sere due: si può solo sperare nell’uscita di un dvd, come avvenuto per Hannah Arendt di M. von Trotta un anno fa. Se non altro il film è stato proiettato, come sempre si dovrebbe, in lingua originale con sottotitoli.

Luogo dell’azione è sempre il villaggio immaginario di Schabbach (in analogia con Morbach, paese natale del regista), nel Massiccio dell’Hunsrück, fra il Reno, la Mosella e la Saar: siamo negli anni 1840-43, dopo la Restaurazione, di cui sconta però gli effetti: ai francesi si sono sostituiti i nobilastri della zona, che vessano la popolazione contadina con tasse, gabelle e spocchiose furfanterie. Il popolo, veri servi della gleba, fa la fame; gli adulti muoiono di tubercolosi e i bambini di difterite.

In questo clima, la famiglia del fabbro Johann Simon, progenitore dei Simon delle serie successive, è compatta e disgregata al tempo stesso: Gustav, è appena rientrato dal servizio militare; il fratello, Jakob, perde tempo con i suoi libri che parlano di terre esotiche (il Brasile del Pernambuco e di Porto Alegre) invece di lavorare nella forgia; la figlia Lena ha trovato un marito cattolico e un figlio fra le vigne lungo le rive della Mosella. Per questo viene esecrata ripetutamente (in un dialogo che trasuda disprezzo, si dice che il marito non è una persona per bene come «noi evangelische»: opportunamente il sottotitolo traduce il termine tedesco con «protestanti», precisione lessicale non scontata).

Jakob sogna i nativi del Brasile e ne studia gli idiomi su libri che arrivano da chissà dove, forse da qualche fiera; ma quando racconta i loro modi di vivere alla ragazza che gli piace (e che poi diventerà moglie di Gustav), non si capisce bene in che misura faccia sfoggio di erudizione e in quale invece non inventi lì per lì: il risultato è lo stesso, la fascinazione per un luogo «altro», dove almeno si possa sfuggire alla fame.

La «voglia di partire» è a metà strada tra la necessità di sopravvivenza e il delirio: un viaggio transoceanico, all’epoca, equivaleva a una condanna a morte per un emigrante su cinque, tra infezioni, stenti, malavita. E partire significava partire per sempre: mesi e mesi di viaggio, e poi l’incertezza. Nessun componente della piccola carovana che muove da Schabbach per imbarcarsi alla volta del Brasile potrebbe realisticamente tornare: per chi resta, è un altro modo di perdere i figli. E la prima lettera che giunge quasi un anno dopo la partenza da parte di Gustav sarebbe già sufficiente, in pochi minuti, a rendere il film un capolavoro: tanta è l’ansia, l’aspettativa, il rimpianto nei volti e nelle voci di coloro che ascoltano la lettura fatta da Jakob.

Tutto il film, del resto, è costruito sulla dialettica tra interiorità e narrazione: appartiene alla narrazione l’articolazione in immagini (un bianco e nero incredibile, inframmezzato ogni tanto da pochi oggetti a cui viene restituito il colore in elaborazione digitale) dei paesaggi della campagna renana; questi ultimi però spesso diventano primi piani (piante di grano, uccelli della foresta, attrezzi della forgia, zoccoli dei cavalli da ferrare, telai per tessere) sul cui sfondo si sviluppano le «tirate» di Jakob o le considerazioni fatte di rassegnazione e dignità: «i bambini [morti di difterite] ci hanno preceduti nel Regno dei cieli – dice Gustav dopo uno struggente funerale collettivo – ma qui siamo all’inferno». Ma la rassegnazione è tale che i genitori dei bambini appena sepolti non se la prendono né con Dio né con il pastore, un po’ compassato, giovane ma autorevole, che predica una Parola difficile da accettare.

Il romanticismo stava per sbocciare e dare ordine al vagheggiamento per le terre lontane. La creatività poetica avrebbe fornito un senso alle ferite dell’anima, che per gli abitanti di Schabbach sono soltanto ferite: quando la madre di Jakob guarisce dalla tbc, i figli la portano con una sedia in un campo perché abbia beneficio dal sole; e quando lei rievoca i sei (su nove) figli morti piccoli, sembra destinata a raggiungerli. Invece lei sopravvive, ma la ferita non si rimarginerà mai, portarsela dentro è una caratteristica del suo vivere. Come lo sono i sogni di Jakob. Parola chiave del romanticismo sarà Sehnsucht, di cui ogni traduzione è inadeguata: struggimento è quella che si avvicina di più; aspirazione fallita, disillusione, rimpianto. È curioso, ma creativamente fertile, che il regista abbia proposto questo capitolo della sua saga ora, a posteriori, dopo che ne abbiamo visto il maestoso seguito.

* Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht (L’altra patria – Cronaca di un desiderio), regia di E. Reitz, Germania 2013. Con J. D. Schneider, A. Bill, M. Scheidt, M. Breuer, R. Kriese, P. Lembeck. 230 minuti.

La prima serie di Heimat (termine intraducibile: oltre che patria indica identità, patria interiore) risale al 1984; si compone di 11 episodi girati per la tv (oltre 900 minuti) e si apre alla fine della Prima Guerra mondiale. I tempi si dilatano negli episodi centrali, ambientati nel periodo fra le due guerre, e descrivono Schabbach e i suoi dintorni con «puntate» più concentrate negli anni della Seconda Guerra, negli anni ’50, ’60 e nel 1982.

La seconda serie (Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza, 1992, 13 episodi per 26 ore di film) propone Hermann Simon, futuro direttore d’orchestra e compositore, negli anni della sua formazione fra altri giovani aspiranti artisti, che studiano a Monaco di Baviera, negli anni dal 1960 al 1970).

Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale (6 episodi usciti nel 2004 per complessivi 700 minuti) si apre con il crollo del Muro di Berlino e arriva al congedo definitivo del protagonista Hermann Simon da Schabbach nell’anno 2000.

Foto “Edgar Reitz 6336” by Harald BischoffOwn work. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.