1280px-street_art_woman

Parlare al femminile

Il 9 marzo Matteo Rivoira ci ha parlato di alcune recenti iniziative tese ad abbandonare l’attuale prevalente uso sessista della lingua italiana e a praticare un linguaggio di genere, cioè non neutro, nel quale i sostantivi e gli aggettivi maschili non assorbono quelli femminili, come invece capita dicendo e scrivendo ad esempio giovani sfortunati, oppure comprendendo nei precari anche le donne. Diciamo subito che su queste cose è facile, e non solo da parte dei maschi fare dell’ironia, minimizzare, ripetendo che c’è ben altro di cui occuparsi. Il che è verissimo, ma non c’entra niente. Nessuno infatti è così idiota da pensare che la donna che sbarca a Lampedusa sia interessata al modo in cui la chiamano, dal momento che i suoi pensieri sono concentrati sul permesso di soggiorno.

La questione del linguaggio di genere, per chi l’ha voluta affrontare seriamente, non ha una soluzione semplice anche perché non si può procedere per imposizione ma solo per consenso. L’obiettivo di superare l’uso sessista della lingua è giustificato. Bisogna evitare soluzioni infelici, come il * al posto del o e della a finale (prima c’era l’altrettanto orribile o/a, oppure i/e (beati/e). Come afferma Rivoira, la strada è ancora lunga e lo sanno i consigli comunali come le nostre assemblee che hanno deciso di adottare, almeno nelle delibere, un linguaggio rispettoso del genere.

Per arrivare ad un consenso, occorre prendere atto di posizioni assai diverse anche fra le donne.

Mi ricordo ad esempio, quando ero membro della Tavola Valdese (si usa membro anche per le donne) che, nelle nomine del vari comitati, in un periodo in cui c’erano tre donne a dirigere rispettivamente i centri giovanili di Agape e Ecumene e l’Istituto La Noce, una di loro voleva essere nominata quale direttora, un’altra come direttrice e la terza come direttore, al maschile. Bene, secondo me avevano ragioni valide tutte e tre. Forse un piccolo passo verso l’omogeneità sarebbe di scrivere, negli atti ufficiali qualcosa come «laTavola Valdese…nomina per la direzione dell’Istituto XY la sorella ( o il fratello) Tal dei tali». Ma che fare per i membri comunicanti o elettori, ovviamente costituiti da donne e uomini?

In molti casi si può usare il termine persone (in inglese per dire presidente hanno inventato chair-person, la persona della sedia, del seggio). E invece che diritti dell’uomo si parlerà di diritti umani.

Quando mi capita, preferisco parlare tutto al femminile, anche ad un uditorio di maschi. Una piccola compensazione alle donne che per secoli sono state disinvoltamente assorbite nel maschile, a cominciare dalla scuola e dai suoi alunni (ma una volta c’era almeno l’identità del grembiulino).

Foto “Street art woman” by WegmannOwn work. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.