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­Oggi ricorre la giornata del testamento biologico

Oggi ricorre la giornata del testamento biologico, organizzata per la prima volta nel 2011 dal Coordinamento laico nazionale, che raggruppa una cinquantina di associazioni presenti in tutto il territorio nazionale. Il testamento biologico (o più correttamente, le direttive anticipate di trattamento) è la dichiarazione fatta da una persona nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, in cui dichiara la propria volontà nel caso dovesse un giorno perdere le capacità decisionali, indicando ai medici i limiti del loro intervento. Diversamente da quanto accade in altri Paesi del Nord Europa come nel Belgio, in Danimarca, nei Paesi Bassi o in Germania e negli Stati Uniti, in Italia non esiste ancora una normativa sul testamento biologico e la riflessione che ha accompagnato il dibattito è sempre stata fortemente ideologizzata fino a ridurre la questione complessa a schieramenti contrapposti: chi è a favore del testamento biologico sarebbe contro la vita, portatore di una cultura di morte, chi è contro sarebbe paladino della vita, che va difesa sempre e comunque.

In questi anni i protestanti italiani hanno partecipato attivamente e laicamente al dibattito sul fine vita. L’interesse è nato perché, come sottolinea Monica Fabbri, ricercatore presso l’Unità di biologia leucocitaria del S. Raffaele di Milano, per dieci anni membro della Commissione bioetica della Tavola valdese, «il dibattito oltre ad essere etico è anche teologico. Esso riguarda, infatti, la vita e il suo significato, vita intesa non come semplice insieme di cellule ma come biografia, fatta di relazioni che si intrecciano». Oggi una legge sul testamento biologico viene invocata da più parti. «Con una normativa nazionale le persone che hanno dato delle direttive anticipate di trattamento sanitario sarebbero certe – prosegue la Fabbri – che la propria volontà sarebbe rispettata. In primo luogo, ci dovrebbe essere un registro nazionale in modo che se ho lasciato le mie direttive a Milano, ma mi succede qualcosa a Palermo, queste non vengano trascurate. In secondo luogo, sarebbe bene che venisse istituita per legge la possibilità di nominare un fiduciario che possa far valere le volontà dell’ammalato». Su questo versante, la Fabbri richiama un’importante sentenza del Consiglio di Stato dello scorso settembre, di cui i media non hanno quasi parlato, la quale afferma che l’Amministrazione sanitaria ha l’obbligo di attivarsi e di attrezzarsi perché il diritto di rifiutare le cure possa essere concretamente esercitato, non potendo essa contrapporre a tale diritto una propria ed autoritativa nozione della cura o della prestazione sanitaria, né subordinare il ricovero del malato alla sola accettazione delle cure. «La grande novità della sentenza – sottolinea Monica Fabbri – riguarda la questione dell’obiezione coscienza, ossia del rifiuto del singolo medico di effettuare una prestazione, ritenendola contraria alle sue convinzioni etiche e/o ai suoi doveri professionali. La sentenza stabilisce che l’autodeterminazione del paziente e l’autonomia professionale del medico sono entrambi principi fondamentali e tra essi occorre trovare un ragionevole punto di equilibrio, ma, sicuramente, non è compito della Regione sollevare l’obiezione di coscienza dell’intero sistema sanitario regionale poiché l’obiezione concerne la persona e non la pubblica istituzione: solo gli individui hanno una “coscienza”, mentre la “coscienza” delle istituzioni è costituita dalle leggi che le regolano».

In attesa della normativa, diverse chiese evangeliche si sono attivate in questi anni per aprire uno sportello di raccolta dei testamenti biologici: la prima è stata la chiesa valdese di Milano, poi si sono aggiunte, Pinerolo, Torino, Napoli, Trieste, Udine, Civitavecchia, Venezia e Mestre, Vicenza, Lucca, Roma-Piazza Cavour, Palermo. Dal novembre 2013 anche la chiesa valdese di Brescia ha attivato l’attività dello sportello per il testamento biologico, dedicando momenti per l’informativa, la distribuzione del dossier ufficiale, la raccolta stessa dei testamenti, alla presenza di notai o avvocati. «Una sollecitazione a portare avanti una discussione sul fine vita e su come affrontare la morte era venuta innanzitutto dal Sinodo e dalla Commissione bioetica – racconta la sua esperienza Anne Zell, pastora della chiesa di Brescia –. Partendo dall’attualità di alcune storie vissute, a Brescia abbiamo iniziato un percorso sui temi della bioetica che ci ha portato anche ad aprire uno sportello informativo alla cittadinanza. È stato importante per me che sia stata l’assemblea di chiesa ad approvare il progetto dello sportello, perché questo lavoro è diventato anche un’occasione di testimonianza della chiesa. Da una parte abbiamo avviato un gruppo di studio, partendo dalla Bibbia e usando documenti esistenti nelle chiese, dall’altra abbiamo portato il dibattito in città organizzando finora tre serate pubbliche sul testamento biologico, con un’ottima risposta della popolazione, delle istituzioni e della chiesa cattolica». Oltre alle serate pubbliche di informazione, il gruppo di lavoro si è attivato per dare una concreta informativa sul tema, presentando i modelli di testamento biologico utilizzati dalla chiesa valdese per la raccolta. «Siamo contenti del cammino finora fatto – ci spiega Mauro Giacomello, coordinatore del gruppo di lavoro della chiesa di Brescia –. La soluzione preferenzialmente adottata dalla chiesa valdese di Brescia è quella che vede le volontà della persona interessata a sottoscrivere le Disposizioni anticipate di trattamento, raccolte con atto di designazione autenticato da notaio. Ma, come già accade in altre realtà, offriamo anche un’altra soluzione e cioè la raccolta delle predette disposizioni, a mezzo di scrittura non autenticata, sottoscritta alla presenza di due testimoni e a un avvocato».

Pensare alla propria fine anticipatamente non è semplice, soprattutto in una società come la nostra dove la morte fa paura, è evitata, quasi sempre omessa. «Il territorio esistenziale di chi vive nella consapevolezza della fine dei propri giorni è per noi inesplorato, possiamo solamente immaginarci quello che sarà di noi», afferma Massimo Aprile, pastore battista, per diversi anni cappellano presso l’ospedale evangelico di Villa Betania (Napoli). «Come cappellano ho fatto l’esperienza che le persone temono molto di più la perdita della loro autonomia e del senso della propria dignità e del decoro che non la morte in sé. Poter esprimere le direttive anticipate di trattamento è un esercizio di libertà e di senso di responsabilità della coscienza che nessun altro può fare al nostro posto». Dal punto di vista della fede, come si coniuga il tema dell’autodeterminazione e della libertà di scelta di ogni persona con l’idea che c’è un limite umano che dobbiamo accettare, e che non tutto possiamo controllare?

«Noi siamo soliti dire che la vita è un dono nel senso che nessuno di noi ha deciso di venire al mondo. Essere aggrappati alla vita, amarla profondamente, poi, è la nostra risposta al dono che abbiamo ricevuto. Per noi credenti questo dono è riconducibile a Dio stesso: lui è la fonte della vita, di ogni vita, compresa la nostra. La domanda che dobbiamo porci è: è possibile che questo dono che Dio ci fa, ad un certo momento diventi come un debito da scontare? Quando la vita non ha più una qualità di relazione, non è più sopportabile da un punto di vista dell’umiliazione a cui ci espone la malattia, quando non abbiamo più prospettive di un domani migliore, e le sofferenze fisiche crescono, perché dovremmo continuare ad onorare questo dono? Io credo che Dio ci abbia dato il dono della vita perché noi lo possiamo godere effettivamente. Abbiamo la responsabilità di immaginare che quando la vita in questo mondo non è più fruibile per noi, possiamo abbandonarci non alla morte ma alla vita eterna con il Signore, alla vita qualitativamente riscattata dalla malattia. Il Signore ci ha chiamati ad una vita che l’evangelista Giovanni definisce sovrabbondante, esuberante, cioè una vita piena e non una vita che diventa uno stillicidio giorno dopo giorno».